Melchiorre Cesarotti e il preromanticismo italiano (1941)

Melchiorre Cesarotti e il preromanticismo italiano, «Civiltà moderna», a. XIII, n. 6, Firenze, novembre-dicembre 1941, continuazione e fine, ivi, a. XIV, n. 1-2, gennaio-aprile 1942, poi in W. Binni, Preromanticismo italiano cit.

Melchiorre Cesarotti e il preromanticismo italiano

Se tutti i traduttori hanno contribuito in diversa maniera a preparare quel momento preromantico che può considerarsi come una moda transitoria, ma rimane d’altronde essenziale nella storia della nostra poesia, per le sue offerte ineliminabili di sensibilità e di linguaggio, chi superò di gran lunga la soluzione incerta degli altri e offrí a suo modo un compatto esempio letterario, ricco delle direzioni piú importanti della sensibilità preromantica mediata in una sintesi poetica efficacissima, fu Melchiorre Cesarotti, l’autore dell’Ossian italiano.

Del Cesarotti si può subito dire che prima dell’Ossian la sua cultura era stata illuministica, non tanto nel senso di adesione alla filosofia nelle sue conseguenze religiose e civili, quanto nella valutazione della poesia, e piú, delle opere poetiche. E fra gli equivoci di questo atteggiamento illuministico è da porsi anche quello di letterati che, come il Cesarotti, univano una vocazione alla poesia del sublime e del naturale accanto ad un giudizio di razionalisti, avari di riconoscimenti totali della poesia. Ammirava le secche tragedie voltairiane, le traduceva con amore e insieme nutriva entro di sé un senso di sbigottimento e di trepidazione per una poesia che uscisse dalle regole schematiche del classicismo razionalistico. Le sue poesie non ci dànno garanzia di gusto nativo, genuino, ma il suo atteggiamento fondamentale di fronte ad Ossian ci rivela quanto potere aveva su di lui un movimento esuberante, una aura di tetra sublimità. Riconoscere e precisare le ragioni dell’incontro Ossian-Cesarotti è piú che fare cronaca: significa riconoscere e precisare nella sua personalità poco profonda quel tanto che basta a sostenere un’esperienza personale, una costruzione organica, non semplice giustapposizione di motivi eterogenei. Perché la storia del preromanticismo italiano comincia veramente da quell’incontro, da quella reazione, da quella fusione fortunata.

Uno studio accurato di quella traduzione è la documentazione migliore sulle origini del romanticismo italiano, l’avviamento piú preciso in sede letteraria alla comprensione della cultura preromantica italiana, da cui nacque la poesia dei nostri grandi ottocentisti, dei nostri grandi romantici neoclassici. E insieme una indagine sulla personalità cesarottiana conferma, con una essenziale traduzione in termini di poetica, quel quadro della cultura del secondo Settecento in cui abbiamo già visto maturi prodotti illuministici e spunti preromantici fondersi e distinguersi verso un gusto, verso una linea letteraria nuova[1].

Il Cesarotti aveva come precedente esperienza la poetica arcadica e pariniana, la cultura classica e illuministica. Di un concetto dell’orrore quale porterà l’Ossian non aveva che l’idea piacevole del brivido rassicurato. Del sublime aveva una certa idea classica ed omerica per quanto ad Omero stesso abbia poi riportato il sublime ossianesco. Infatti la storia dell’Ossian è un po’ un circolo che parte da Omero e ritorna ad un Omero arricchito e barbarizzato dopo il primo spunto di un certo sublime avvertito in quantità minima e settecentesca in lui. Questo viaggio si può ben osservare nel Cesarotti che già all’inizio della traduzione dell’Ossian ha di fronte l’immagine di Omero e con essa lo paragona: poi, tratto dall’Ossian ciò che poteva trarne la sua sensibilità sulla scorta di un certo Omero da lui sviluppato man mano che leggeva l’Ossian, torna ad Omero per ossianizzarlo. Il Cesarotti dunque si avvicina all’Ossian con un’idea vaga ed esemplare del sublime, con il massimo dell’idea di orrore degli arcadi, con la preparazione ad una sfumatura languida e ad una sostenutezza classicheggiante pariniana. Le sue idee lo portavano ad un senso spregiudicato del bello ovunque lo trovasse e insieme al pregiudizio del ragionevole in poesia, ma anche con l’eco di quanto il Seicento aveva pur operato nella immaginosità italiana non del tutto spenta nel rococò (il barocco restava la miniera delle immagini, l’unica forza selvaggia che la gracilità arcadica presupponesse).

L’idea di genio cominciava lentamente a trasformarsi in personalità geniale e il carattere sommo della poesia si rivela nel sublime, in una vittoria sentimentale sulla pura e semplice divinità della forma (anche i neoclassici parleranno di sublime a proposito della serenità, della calma classica, ma anch’essi presteranno all’oggetto della loro estasi il carattere della loro passione). Ma le lodi del Cesarotti a questi nuovi temi indicano l’esitazione e in fondo l’equilibrio del suo gusto tra presentimento del nuovo e piatta adesione a motivi tradizionali, arcadici e sensistici. Tendenze, preferenze del gusto edonistico insieme alla riconosciuta importanza della sensibilità indicano il punto da cui il Cesarotti vedeva l’Ossian: impeto nuovo educato però letterariamente, sentimento che rivelava nella sua violenza l’intento contemporaneo dell’effetto retorico. Era ancora «la specie piacevol di spavento», la delicatezza in cui il sentimento confinava con la galanteria, la violenza che voleva essere svolta in un giro di eleganza. Il Cesarotti tendeva con acuta spregiudicatezza, ma anche con sicura padronanza, a un risultato che non esorbitasse dalla tradizione, non superasse quella fusione di spirito moralistico, formale e delicato che era la misura del suo animo. Nelle sue lettere piú intime sembra a volte avvicinarsi a certi toni alfieriani piú violenti e romantici, ad un riconoscimento chiaro dei limiti illuministici e della superiorità di qualità primarie, ma subito una certa goffaggine e pesantezza ci avverte che quello slancio non è di pura personalità: è di moda, accettato e incoraggiato, con rapida intuizione, ma spento in un edonismo di letterato per cui tutto resta inesorabilmente letteratura, adorato pretesto di esperimenti e di maniere: «Nulla di piú dolce che parlar di lui, deliziarsi nel rammemorar le sue qualità, nello sviluppar i suoi meriti, nel riandar collo spirito tutte quelle particolarità che ce lo resero caro. Che bel concerto armonico di lugubre dolcezza non faressimo insieme, sig. Enrichetta amatissima, sopra questo interessante soggetto» (per morte di persona cara, ad Enrichetta Treves)[2]; o: «Io mi guarderò bene dal presentarle i conforti della loro filosofia, di cui ella non ha bisogno, ed io so per esperienza quanto siano freddi e insufficienti» (alla contessa Livia Dragoni)[3]. E si rilegga la descrizione di Selvaggiano, la villa di campagna del Cesarotti, la realizzazione sensibile dei suoi ideali estetici, del suo paesaggio letterario. C’erano nella villa una «fabbrica rusticale», un «boschetto funebre» e dappertutto iscrizioni latine e italiane che confermano questa medietà tra gusto preromantico piú decisivo e una delizia ancora arcadica e al massimo pariniana.

Selva diletta, il tuo romito orrore

gioia tinta di duol promette al core.[4]

Distico che si può citare come la sintesi voluta di questo letterato sensibile e misurato, ripresentando l’espressione pariniana e arcadica in un’aura preromantica ormai avanzata. Il dolore, il pianto, la melanconia, non ancora sentiti tragicamente come nell’Alfieri, sono invece sinonimo di dolcezza, si avviano verso la dolcezza in un’equivalenza che è di sottomissione ad un fondamentale edonismo. E perciò anche l’espressione è spesso o ancora tutta vecchia o goffa, non avendo raggiunto un vero nucleo sostanzioso e coraggioso. La dolcezza delle lacrime, la «Venere del pianto», mancano di una purezza poetica che sarebbe la loro organica giustificazione, ed hanno la genericità di un motivo appreso e mediato da un animo fondamentalmente aperto e poco preformato. In Selvaggiano vediamo spuntare qua Gessner, là Gray, piú in là Ossian sbiaditi da una leggiadria arcadica e da una sobrietà tradizionale che cerca conciliare l’impeto del giardino inglese con l’arguzia del vecchio rococò e con la misura del neoclassicismo. Meronte, il Cesarotti, portava un animo fresco e letterario, la disposizione a un piglio che si placa e che si gode, una mediocre personalità poetica che non disturba la costruzione del suo gusto, un compromesso in germe che permetteva la coesistenza, la fusione in una forma letteraria, letterariamente efficace, di atteggiamenti delle poetiche contrastanti e vicine, che in questo periodo si accavallano e reagiscono. È all’epoca dell’apparizione dell’Ossian macphersoniano che questa cultura compromessa giunge alle sue massime possibilità.

Nella lettera al Macpherson del 1763, il Cesarotti toccava il punto giusto quando affermava che Ossian, se veniva a dar ragione ai partigiani degli antichi, faceva anche vedere i difetti degli antichi: cioè che se faceva accettare quelle qualità di sublime ritrovate negli antichi (e in realtà nate dal travaglio di una disputa comune piú che da una delle due tesi), mostrava anche che quel sublime era ben diverso da quello realmente isolabile nei classici. E in realtà affermava la nascita del gusto preromantico, la sua accettazione unitaria di elementi solo in apparenza ed equivocamente diversi e contrastanti: «Permettez..., qu’avec toute l’Italie, je vous félicite sur l’heureuse découverte que vous avez faite d’un nouveau monde poétique et sur les précieux trésors dont vous avez enrichi la belle littérature... Morven est devenu mon Parnasse et Lora mon Hyppocrène... tout ce spectacle grand et morne a plus de charmes à mes yeux que l’île de Calypso et les jardins l’Alcinoüs. On a disputé longtemps et peut-être avec plus d’aigreur que de bonne foi sur la préférence de la Poésie ancienne et moderne... Ossian, je crois, donnera gain de cause à la première, sans que les partisans des anciens y gagnent beaucoup. Il fait voir par son exemple, combien la Poésie de nature et de sentiment est au dessus de la Poésie de réflexion et d’esprit, qui semble être le partage des modernes. Mais s’il démontre la supériorité de la Poésie ancienne, il fait aussi sentir les défauts des anciens Poétes mieux que toutes les critiques. L’Ecosse nous a montré un Homère qui ne sommeille, ni ne babille, qui n’est jamais ni grossier ni trainant, toujours grand, toujours simple, rapide, précis, égal et varié»[5]. Se ciò che ci interessa nel Cesarotti non è tanto la sua originalità quanto la sistemazione della cultura poetica nuova, e insieme il suo addomesticamento, va subito notato dunque come egli cogliesse, nell’opera che si accingeva a tradurre, proprio quel misto di grazia e di barbarie che, attraverso il primo termine e la confusa aspettazione del secondo, la letteratura italiana del secondo Settecento poteva pure con sforzo accettare.

L’inganno del Macpherson era dunque particolarmente grato al Cesarotti che aveva bene intravvisto nell’Ossian una risposta ai desideri moderni: «Un Fingal, un Ossian dovevano sembrare due idoli concepiti nell’immaginazione di un poeta filosofo, d’anima virtuosa e sensibile che volle realizzare le idee del suo spirito, pensando al bello piú che al credibile». Il tema della virtú e della sensibilità, della filosofia, come serena creazione morale, ma anche come libertà dai puri vincoli della credibilità, è ripreso ai margini dell’illuminismo e tratto sul nuovo terreno dove Rousseau stava soppiantando Voltaire. Cosí il Cesarotti senza uscire dall’illuminismo, dagli schemi di un filosofismo che in Italia del resto non era riuscito a creare una mentalità estremistica in senso razionalistico, riusciva ad avvicinarsi alle nuove correnti europee, ad autorizzare il nuovo senso del «sublime» preromantico.

«Ossian è il genio della natura selvaggio: i suoi poemi somigliano ai boschi sacri degli antichi suoi Celti: spirano orrore, ma vi si sente ad ogni passo la Divinità che vi abita»[6]. Quel primo accertamento di una similarità al gusto moderno epurato nelle sue segrete aspirazioni e non urtato dal sospetto di una civiltà poetica contrastante (come era quella omerica), permetteva al Cesarotti di accogliere senza paura e senza rimorso la novità dell’Ossian, di calarvi dentro tutta la suggestione omerica finora limitata dallo scrupolo illuministico, di puntare arditamente sull’essenza di quella novità: «il genio della natura selvaggio..., e spirano orrore etc.». Queste parole sono nuove nella tradizione letteraria italiana in cui prevaleva la natura proprio come compenso idillico e musicale di ogni tensione spirituale, dove l’orrore non era maggiore di quello del «solitario bosco ombroso», dove la parola «genio» evolveva solo ora verso il suo significato romantico di personalità eccezionale. Tutte le spiegazioni che il Cesarotti nella sua introduzione cerca di portare alla particolare novità dell’Ossian, vertono appunto intorno al contrasto fra quel vigore nuovo e la sua perfezione pittoresca. Sono spiegazioni di «ambiente» che toccano sempre il cerchio di gusto limitato del Cesarotti, il quale riconosce la violenza barbarica di quella poesia solo quando è sicuro che non vi manca un fondamentale addolcimento, un fondo edonistico e didascalico che arricchisce e convalida ogni slancio del sentimento: «mancano ad Ossian quasi tutti que’ pregi che nascono dai raffinamenti convenzionali dell’arte e dalla perfezione della società»[7] e: «dati i costumi, le opinioni, le circostanze dei tempi; trarne il miglior uso possibile per dilettare, istruire, e muovere con un linguaggio armonico e pittoresco: ecco il problema che un poeta si accinge a sciogliere colla sua opera, ed io osai credere, forse a torto, ma non già temerariamente, che Ossian per piú di un capo l’abbia sciolto assai piú felicemente di Omero»[8]. Cosí tutto il lungo ragionamento intorno ai Caledoni premesso alla traduzione oscilla tra la presentazione adeguata di quel contenuto poetico e la giustificazione ambientale, quasi la scusa, da parte di una civiltà raffinata, della poesia pseudobarbara dell’Ossian. Cosí venivano affermate senza paura, con un ardimento tranquillo, le qualità già mediate della poesia preromantica: come quando, in un interessantissimo indice finale aggiunto alla traduzione, il Cesarotti elencava le qualità dell’Ossian: grandezza, estensione (alto, vasto, profondo), forza, il terribile (per il quale si avvertiva: «veggansi i Profeti, Omero, Klopstock, Milton», e si allargava cosí la base di quella cultura). E il dizionario poetico che segue, se indica bene un gusto ancora tutto settecentesco e addirittura un po’ accademico (in quanto isola con grande attenzione le situazioni piú diverse come prova di varietà poetica), insiste però pur sempre sui caratteri di quella poesia: sublime e vago insieme mescolati:

occhio natante in segreta lagrima,

occhi soavemente lenti,

occhio trabocca d’amore, e di lagrime,

i passi luridi dell’ombre,

orridi spettri cavalcano su focosi raggi,

la tempesta s’oscura nella tua mano.[9]

Cosí anche grande uso della parola «patetico», e del motivo dell’orrore, cosí grande congerie di espressioni rare aggruppate sotto la parola «morte» e l’epiteto di sublime adoperato tanto frequentemente:

apostrofe sublime entusiastica al Sole,

apostrofe sublimissima allo stesso...[10]

Proprio il «sublime» costituiva il centro delle ricerche del Cesarotti, fissava la tensione poetica massima ottenuta, da un lato, dal senso formale del pittoresco, dell’armonico che mai l’abbandonò del tutto e restò almeno come rimorso, come limite violato consapevolmente, dall’altro, dalla sensibilità nuova del terribile, del patetico, del malinconico.

Come egli dirà nel suo Saggio sul bello, adoperando delle categorie intellettualistiche, vi sono nel sublime come il preromanticismo lo voleva la finezza del «bello intellettuale» e i riferimenti del «bello morale». In realtà cambiava lentamente il concetto di «sensibile» che si arricchiva inevitabilmente, per diventare senz’altro il bello romantico, di determinazioni ancora pensate come isolate. Vogliamo dire che nel Cesarotti critico sono ancora elementi non fusi radicalmente da un’unica intuizione, ma categorie giustapposte che nel romanticismo andranno sempre piú apparendo qualità inscindibili della stessa poesia. Qui è il carattere del Cesarotti: nel suo equilibrio letterario si presentano le forme che i maggiori poeti romantici portano a vera sintesi non in forza di una abilità letteraria, ma di una unitaria intuizione personale. È perciò interessantissimo per lo storico leggere nel Cesarotti precisazioni letterarie di ciò che nel Foscolo, ad esempio, diventerà tono, forma poetica di un sentimento originale.

«La mescolanza del bello morale col sensibile rende questo piú interessante. Un boschetto di alberi ben disposti è bello per sé; ma se questo è di cipressi funebri, ci attrae di piú per la dolce melanconia che sveglia in noi l’idea della caducità umana. La sensazione diviene piú viva e profonda, se in mezzo a un circondario di cipressi v’è una tomba o una memoria d’un uomo celebrato o caro. Un romitaggio situato in un bosco insinua nelle nostre idee il senso augusto della Religione... Un mare in tempesta presenta l’aspetto d’un bello terribile, ma esso diviene patetico se veggiamo da lungi un legno in pericolo di naufragare. Tutti i monumenti che rappresentano vicende strepitose, tutti quelli che svegliano alcun sentimento profondo relativo alla Divinità, all’Eternità, alle forze del tempo, alle vicissitudini della fortuna, tutti hanno una bellezza assai maggiore di quelli che ci dilettano per la squisitezza dell’arte. Una campagna solitaria, con una capanna e una greggia condotta da un pastorello inteso a suonar la zampogna diviene deliziosa, perché sveglia l’idea della pace e della innocenza»[11]. Nel quale brano sembrano ritrovarsi anche tutti i temi del preromanticismo quale poteva facilmente essere accolto nella letteratura italiana: il tema dell’idillio gessneriano e rousseauiano («sveglia l’idea della pace e della innocenza»), il tema dei cimiteri, il tema dell’eternità meditata e fortunosa.

Mentre il Cesarotti traduceva l’Ossian e contribuiva nel modo piú decisivo alla formazione di un linguaggio, di una poetica preromantica che verrà tenuta in massimo conto dai grandi romantici italiani, egli manteneva una nutrita corrispondenza letteraria che verteva proprio sulla relazione fra la letteratura italiana e quella straniera del nord, trasportando l’antica querelle europeista-tradizionalista verso una forma per noi molto piú interessante. Il Cesarotti aveva in quel momento una infatuazione per la letteratura nordica, vedeva dappertutto, anche senza molta distinzione, il sublime, la conferma della provvidenzialità della pseudoscoperta di Ossian. Cosí nelle lettere al Van Goens sui poeti tedeschi: «Voi mi toccate il cuore, – dice il Cesarotti –, lodandomi i Poeti Tedeschi. Sapete voi ch’io ne sono innamorato al par di voi stesso, benché non sia in caso di gustare gli originali, e non ne abbia letto che alcuni pochi componimenti nelle traduzioni Francesi? Parmi che l’esser comparsi piú tardi delle altre nazioni sulla scena poetica abbia confluito molto a perfezionarli. Essi conservano quell’amabile semplicità, e per cosí dire quella freschezza di natura che sembra caratterizzar le prime produzioni di tutti i popoli e sono nel tempo stesso a portata di profittar dei lumi del secolo, della molteplicità dei grandi modelli, e del gusto della buona critica che la vera filosofia ha sparso in questo genere di studi. Le Poesie di Haller, gl’Idilli di Gessner e la Morte di Adamo di Klopstock sono le sole cose che mi giunsero alle mani e m’incantarono estremamente»[12]. L’Ossian lo aiuta a capire i moderni e a scoprire in quelli una freschezza naturale che lo portava ad una maggiore spregiudicatezza nei riguardi dei classici.

In una bonaria polemica col Vannetti chiede grazia per «I poeti tedeschi... per l’amabile e virtuoso Gessner. Essi hanno, non v’ha dubbio, i loro difetti; ma i nostri, i Latini, e i Greci ne mancano?»[13]. E quando il Vannetti rispose dicendo che nei tedeschi censurava «solamente l’uniformità, la tetrezza, e certa stravaganza di cupi pensieri, e di metafisiche astrazioni; le quali cose negli stessi originali... sono per avventura bellezze... ma nella versione mostrano abbastanza di non volere far lega col genio della nostra poesia; e quindi conviene avvertire la Nazione sempre vaga di novità perché non tenti uno sforzo ed inutile e pernicioso»[14], il Cesarotti replicò che non occorre che affini siano le lingue ma i sentimenti di chi le traduce: cosí affermava ad ogni costo l’utilità di una conoscenza delle letterature piú lontane appunto perché spregiudicato europeista, e ammetteva l’importanza di un arricchimento sentimentale dei letterati italiani. La sua brama di nuovi testi poetici indicava anche la scontentezza della poesia settecentesca e la ricerca di una nuova poesia: la poesia del sublime, di un piú che estetico. Come avviene sempre in momenti di rinnovamento, la tensione entusiastica è per sua natura stessa extraestetica, chiede piú vita, piú presenza dello spirito, sembra implicare un sovvertimento che agli occhi dei conservatori è senz’altro il brutto: poi raggiunge un nuovo concetto della poesia. Cosí anche i preromantici con la nuova idea del sublime sembravano attuare una soluzione piú integrale, fondamentale dell’uomo poetico, sembravano annettere al bello delle qualità superiori e non direttamente estetiche, una direttiva eteronoma che era per loro indice di una superiore bellezza. E dove a vera sintesi arrivarono, fu un nuovo concetto della poesia quello che si affermò. Ma la posizione del Cesarotti, spregiudicata ed europeistica, aveva sempre una base di lucido illuminismo che non cessava di influenzare anche le novità di gusto, l’aspirazione al sublime. Anche l’entusiasmo per Ossian era un po’ la meraviglia di una poesia completa in mezzo a popoli incivili; non l’affermazione di poesia-barbarie, primitività. Certo in lui la visione illuministica si allarga, ma piú come accrescimento di un quadro civile ben fermo, che come una improvvisa irruzione di altri valori antitetici, il che avverrà semmai con l’Alfieri[15].

Anche se dell’Alfieri vi sono come dei presentimenti che lentamente oppongono ai vecchi nuovi canoni: «Il parlar per sentenze universali ed astratte è proprio dei filosofi, e degli oziosi ragionatori. Gli uomini rozzi ed appassionati singolarizzano e parlano per sentimenti. Se questa è la qualità piú essenziale del vero linguaggio poetico, come vuole il Vico, Ossian è il piú gran poeta d’ogn’altro[16]». Dove, come si vede, spunta ed assume valore la nuova intuizione vichiana: il Cesarotti non si assume la piena responsabilità di questo capovolgimento, ma certo è lieto di poterlo applicare ad Ossian, ad una poesia che diventava per lui «la poesia». Cosí, tra vecchio e nuovo e spesso giungendo al nuovo con il metodo illuministico, il Cesarotti muove molti dei suoi motivi letterari: ad esempio, la sua battaglia contro le regole. Nel Ragionamento sopra l’origine e i progressi dell’arte poetica[17], in un tentativo di classificazione della poesia, assai confuso ma ricco di spunti vigorosi (ad es. una presentazione originale, ma estremamente illuministica, delle relazioni letteratura-genio nazionale[18]), il Cesarotti combatte il pregiudizio delle regole e della precettistica. Sono pagine piene di quel brio illuministico che in lui prendeva colorazioni piú dotte e letterate traducendosi in forza di argomentazione e di polemica. Dice dei petrarcheschi: «Ma questi ornamenti accattati e posticci, e qualche volta usati a rovescia, piangevano loro intorno, come appunto un bel vestito aggiustato sopra un corpo vistoso ed armonico, se si trasporta ad un altro disadatto e di malgarbo, ne acquista esso pure deformità. Le movenze delicate e gli atteggiamenti inimitabili del Petrarca diventarono contrafacimenti e contorsioni; traspirava l’aria di donna volgare sotto gli abbigliamenti di una Divinità»[19]. Partendo da una astratta Natura, carica però di ineffabilità preromantica, e da presunti «rapporti eterni ed immutabili tra gli oggetti e l’uomo», il Cesarotti veniva a minimizzare l’importanza delle regole (e persino dell’esempio di altri scrittori), a considerarle cervellotiche e dannose per l’originalità e il riferimento diretto degli autori alla natura. E convalidava questo suo atteggiamento di origine illuministica, ma di accento preromantico, con l’esempio del genio-Omero attuante i suoi disegni poetici senza precedenti modelli e regole, capace di un’arte poetica sua traducibile in una teoria dell’arte da un’aggiunta coscienza filosofica. Istinto e ragionamento venivano cosí a separarsi come sorgente e come coscienza riflessa di poesia ed il primo, collegato alla natura, autorizzava quelle regole «essenziali e di natura», universali e risolte nella concreta organicità dell’animo del poeta (quella regola è «l’unità del core» di cui parlerà il romantico Torti): «ella (la Poesia) non ha bisogno di strumenti; ella non deve i suoi princípi ad alcuna cosa esterna, ella li trova tutti nell’animo ove rinchiusa fermenta; le passioni la svegliano, la fantasia la veste: chi studierà bene il suo spirito ed il suo cuore troverà le regole della Poesia scritte in se stesso, e vedrà che senz’altro aiuto ella può nascere dalla sua mente, deformata ed abbellita, come Pallade dal cervello di Giove»[20].

C’è dunque anche nel Cesarotti una battaglia per la libertà della poesia, tanto piú importante in quanto non rimane astratta discussione, ma cala in termini critici e in effettiva pratica poetica, diversamente da quei preannunci settecenteschi troppo precoci di storia dell’estetica che han dato luogo agli studi di Robertson, Quigley, Toffanin. Ma le sue intuizioni non venivano svolte oltre i limiti di un buon senso poco estremista anche se vestito spesso di un’apparenza balda e combattiva e le regole ripudiate venivano riammesse almeno parzialmente in un equilibrato compromesso.

Con questa incertezza del letterato che non cerca un profondo motivo delle sue preferenze, ma si regola secondo la convergenza del proprio gusto con le indicazioni della moda, rapidamente assorbendo e sviluppando e conciliando gli accenni di un gusto nuovo, è connessa la stessa natura del Cesarotti, incapace a rifinire con insistente profondità un concetto. L’Alfieri ,meno letterato e meno discorsivo, approfondirà per sempre il sublime preromantico nel tono con cui pronuncerà le sue parole di disperazione, di allibimento, di eroismo; il Cesarotti invece compone i precetti tradizionali alla poesia con quelli del nuovo e del suo gusto, azzarda e consolida, insistendo in superficie, e mostrando la novità non dimentica di notare le somiglianze, le giustificazioni con l’antico. Si preoccupa di bandire una nuova scoperta e poi di presentarla sorridendo con il Nihil sub sole novi, di caricare le tendenze originali piú vistose e di giustificarle secondo le esigenze di un’umanità complessa e media: «Ossian sa maneggiare con ugual maestria tutte le specie di colori. E s’egli fa spesso uso del cupo, quest’è perché il cupo è piú spesso confacente ai suoi soggetti»[21]. Questo stesso parlare di colori adatti a certi diversi soggetti, non di espressioni di un sentimento fondamentale, indica la preoccupazione di far accogliere una novità che urtava con una tradizione di serenità, di solarità a poco a poco insensualita e svigorita ed ora, nella sintesi pariniana, resa forma di un concetto civile, equilibrato e ragionevole. Il Cesarotti arrivava insomma anche lui alla scoperta della nuova sensibilità con il grave peso di remore derivante dalla sua formazione che non gli permetteva di riempire con un’originale elaborazione sentimentale le formule moderne intuite troppo sul piano della letteratura. Compromesso intimo a lui che abbiamo però detto letterariamente provvidenziale come mediatore del nuovo al vecchio, delle audacie nuove alla tradizione piú prudente.

Se esaminiamo le poesie originali o il rifacimento della Iliade, vedremo meglio la pacifica incertezza in cui il Cesarotti veniva a trovarsi fra le origini illuministiche, l’educazione classica e l’istintivo gusto del nuovo. Può sembrare perfino strano che l’innegabile abilità, l’efficacia della versione dell’Ossian si disfaccia cosí risolutamente nelle poesie originali, nel poemetto encomiastico La Pronea[22], che poteva rappresentare il risultato piú personale delle sue esperienze, la soluzione dei suoi problemi letterari. Qua e là versi avventati da un fondo di grandiosità e di generica meditazione affiorano nel complesso scadentissimo

(e menò vampo

d’esser terra non altro, e sogno e nulla:

[...]

larva che un soffio di ragion dilegua),[23]

ma la natura retorica (a parte l’indirizzo tutto encomiastico del poemetto, che ripropone il triste problema della insensibilità tradizionale a quella sdegnosa solitudine del letterato che si inizia con l’Alfieri) della poesia del Cesarotti si rivela in tutto il componimento: l’incapacità di reggere una descrizione, di costruire un discorso poetico. Si guardi la inettitudine a superare il valore retorico della parola e la tendenza ad una immaginosità frusta o convenzionale:

O tu, qual che tu sia (ch’uomo non posso,

altro dirti non so) o di portenti

artefice sovran, portento ignoto,

soffri che a te Meronte offra un tributo

non vil, né forse di valore ignudo,

un silenzio che pensa, e un cor che grida

Napoleon...

Io taccio, oppresso

di gioia e di stupor, torno a celarmi

nella mia selva, e piú che prima infermo

di lena e lingua al mio Signor consacro

un silenzio che pensa, e un cor che grida

Napoleon.[24]

Si noti la povertà della suggestione preromantica quando manca la guida sicura di un mondo preformato e gustato secondo un amore del nuovo e una possibilità piú imitatrice che assimilatrice. Anche in tardi componimenti originali la forma che piú in lui si presenta come normale e normativa era quella petrarchistica-arcadica prima della nuova forma alfieriana:

Serenatrice de’ leggiadri cori,

candida lampa della notte bruna,

madre di dolci idee tacita Luna,

che di modesta luce il ciel colori:

il scintillar de’ tuoi soavi albori

stuolo d’amanti a care veglie aduna.[25]

Ma a nessuno può sfuggire neppure un certo turbamento nella languidezza che si spinge dalle tenerezze arcadiche a un eccesso pittoresco e sentimentale, che, affidato ad una somma di aggettivi (leggiadri, candida, bruna, dolci, tacita, modesta, soavi, care), indica sul vecchio tessuto intenzioni nuove, eccedenti la misura arcadica. Indicano questi versi che il Cesarotti non riusciva a liberarsi dagli schemi complessi di Arcadia e illuminismo se non per una mimesi letteraria che gli aveva trasfuso piú che in altri moderni un turbamento nella vecchia forma. Letteratissimo, il Cesarotti svegliava le sue originali qualità poetiche al contatto di una suggestione letteraria che completava la sua capacità sensibile. Se no restava a metà, incerto, con uno sforzo che non riusciva a concludere. Il suo gusto soffriva meno antipatie che simpatie e la sua bonaria apertura lo rendeva pronto a tradurre con entusiasmo pari le tragedie di Voltaire o l’Elegia del Gray: e ciò non con la leggerezza praticona di altri poligrafi settecenteschi, ma perché nel suo spirito non v’era un vero dramma tra vecchio e nuovo, tra illuminismo e motivi nuovi, ché anzi dovevano questi apparire a lui come l’inveramento piú genuino di uno sviluppo di certe idee illuministiche, di quella parte almeno che teneva a salvaguardare la poesia e ad esaltare la purezza delle sensazioni, cioè della primitività.

Lo stesso atteggiamento ideale rivela nel Cesarotti uno di quei letterati che non sanno rimanere appartati nel loro campo volontariamente delimitato e che d’altronde non costruiscono su di una base fervidamente coerente ed eroica. In tutto risplende il suo «ragionato entusiasmo» e mentre, finché Venezia è una repubblica aristocratica, egli resta aristocrateggiante, quando diventa per forza democratica, anch’egli diventa democratico, pronto poi sotto l’Impero a sorridere delle sue idee precedenti: «Fu già un tempo in cui anch’io sognava il regno di Astrea, la ragione depurata, la perfettibilità progressiva...».

Cosí il suo patriottismo è illuminato, il suo cristianesimo saggio e moderato come il suo gusto dell’entusiasmo. Viva in lui era dunque una capacità fresca di entusiasmo che non abbandonava mai la fiducia conclusiva in una vita illuminata e sensibile, nella guida bonaria della ragione che si ritrova in ogni apparente cambiamento del suo pensiero. La prova piú interessante di questo connubio in lui naturale di illuminismo e della possibilità di accettare nuove intuizioni non sospettate e non volute contrarie alle basi ideologiche del suo gusto, è il rifacimento dell’Iliade, nella Morte di Ettore (1786-94), che doveva, secondo lui, rendere al fine accettabile la parte genuina della poesia omerica ai moderni, rappresentare la sensibile soluzione della antica querelle. Naturalmente questa improba fatica acquista una luce piú chiara quando si precisi la sua posteriorità rispetto all’Ossian: Omero ha messo in rilievo, per affinità e contrasto, la poesia di Ossian, che a sua volta ha riportato Cesarotti ad Omero. Come si sa, egli si decise a due versioni dell’Iliade: una letterale ed una poetica. La prima ci interessa solo per l’uso del linguaggio ossianesco, già inizialmente tinto di molti omerismi, la seconda ci assicura definitivamente dei limiti del Cesarotti, fuori dell’equilibrio raggiunto nella versione dell’Ossian. Ciò che il Cesarotti voleva, si vede in questa versione, ciò che il Cesarotti poteva raggiungere facendo guidare la sua capacità espressiva da un testo per lui suggestivo, si vede nell’Ossian. Anzitutto nella Morte di Ettore doveva affermarsi una chiara morale («La colpa si procaccia da se stessa la propria pena»[26]) che liberasse cosí Omero dalle accuse piú esteriori dei moralisti («Il lamento di Elena nel testo è dettato principalmente dall’interesse: nella versione poetica esso è inspirato dal rimorso, il che lo rende piú interessante e disarma l’ira dei lettori contro questa bellezza funesta. Vi si è anche aggiunto un cenno che dà risalto alla moralità del Poema, e rappresenta la morte di Ettore come una punizione degli Dei per la sua soverchia connivenza alla passion del fratello»[27]) e che doveva aggiungere un interesse al puro racconto fantastico: ma è chiaro che qui il «delectando monet» supera del tutto quel misto di bello e buono che secondo i preromantici poteva produrre il patetico.

Nel rifacimento dell’Iliade egli vuole raddrizzare ogni sentimento che gli sembri poco morale, poco eroico o poco motivato, vuole prestare ad Omero idee di «umanità e di morale», di una astratta morale cioè diversa dalla concreta morale omerica. E tende sempre ad una «sensatezza» magari «sublime», ma verosimile. Se cosí riduce l’inganno amoroso di Giunone a Giove «con un po’ piú garbo, sí che né la decenza, né la galanteria non ci scapitino», nella descrizione dello scudo di Achille vuole accordare ad ogni costo la poesia col buon senso corrente.

Se i limiti illuministici della mentalità del Cesarotti balzano chiari nella versione poetica dell’Iliade, è da notare però che il gusto del fosco, del tenebroso era penetrato in lui oltre le radici sentimentali non ancora chiarite, sotto la specie della ragionevole coerenza. Dice dei primi versi del canto XI dell’Iliade: «L’Aurora ch’esce dal letto del bel Titone non parrebbe che andasse a illuminare una giornata di nozze? Un’alba trista e lugubre conveniva assai meglio a un giorno di sangue... Un cielo annuvolato, un’aurora fosca e sanguigna era un augurio piú naturale e piú proprio»[28]. Ed anche da questa sua posizione meglio si può capire l’entità e la natura del compromesso fruttuoso dell’Ossian: la mediazione da parte di una personalità audace, ma preoccupata di una giustificazione razionale dei suoi gusti, di un poema che implicava nuovo senso dell’immagine, nuova sensibilità.

Se nella teoria poetica il Cesarotti non riusciva a superare i limiti della mentalità settecentesca, la sua fondamentale spregiudicatezza di europeo moderno gli consentiva un senso della lingua piú libero e mosso, e, su di una base sempre razionalistica e sensistica, il risultato delle sue speculazioni linguistiche era un moderato equilibrio tra innovazione e tradizione, fra uso e regole, ma soprattutto un rispetto della vita che nella lingua si rivela e che spinge la lingua ad arricchirsi, a cambiarsi contro ogni assurdo purismo integrale: «Il progresso della lingua è sempre in proporzione di quei dello spirito»[29].

«La via delle lingue non è immortale e inalterabile niente piú che quella dell’uomo che ne fa uso»[30]. «Allora solo la lingua potrà cessar d’arricchirsi quando lo spirito non avrà piú nulla da scoprire, né da riflettere. È dunque un operar direttamente contro l’oggetto e il fine della lingua il pretender di toglierle con un rigor musulmano il germe della sua intrinseca fecondità»[31]. Il suo era non un sicuro storicismo, ma certo un senso vivo della natura della lingua, anche se nella premessa di un accorto e ragionevole compromesso: «Non si tratta di un aumento precario di vocaboli, si tratta di libertà: ma d’una libertà permanente, universale, feconda, lontana dalle stravaganze, fondata sulla ragione, regolata dal gusto, autorizzata dalla nazione in cui risiede la facoltà di far leggi»[32].

E certo sono anche questo suo ragionevole senso di libertà linguistica e questa sua disposizione a farsi investire, fuori di ogni sciovinismo o purismo, da una nuova sensibilità anche straniera, e a riscaldarne la propria espressione entro i limiti già accennati, che dànno alla versione dell’Ossian un valore letterariamente eccezionale. Eccezionale per la sua novità graduata, non inattingibile da chi fosse piú europeisticamente nutrito della cultura del tempo, non ripugnante ad un fedele della poesia italiana e pur ricca di immagini, di atteggiamenti sentimentali, di toni, di colori del tutto insoliti nella nostra tradizione.

«Di un cosí grande originale ebbi l’arditezza di fare un dono all’Italia. Senza un esempio che mi servisse di scorta, con una lingua feconda sí, ma isterilita dalla tirannide grammaticale, a guisa di atleta mediocre costretto a lottare con un gigante, a fine di non restarne oppresso, dovetti ricorrere ad uno schermo particolare, ed inventare scorci ed atteggiamenti di nuovo genere». Dice il Cesarotti, conscio appunto della sua posizione di equilibrato innovatore e superbo di aver portato nella traduzione dell’Ossian la sua spregiudicata volontà di destare nuova forza nella lingua poetica italiana[33]. «Un traduttore di genio (dice proponendo «una serie di giudiziose traduzioni degli autori piú celebri di tutte le lingue» «per avvezzarsi a sentire squisitamente quelle finezze e per dare nuovi atteggiamenti e nuove ricchezze alla lingua») prefiggendosi per una parte di gareggiar col suo originale, e sdegnando di restare soccombente: temendo per l’altra di riuscire oscuro e barbaro ai suoi nazionali, è costretto in certo modo a dar la tortura alla sua lingua per far conoscere a lei stessa tutta l’estensione delle sue forze, e sedurla accortamente per vincer le sue ritrosie irragionevoli e ravvicinarla alle straniere, a inventar vari modi di conciliazione e d’accordo, a renderla infine piú ricca di flessioni e d’atteggiamenti senza sfigurarla o sconciarla. La lingua d’uno scrittore mostra l’andatura d’un uomo che cammina equabilmente con una disinvoltura o compostezza uniformi; quella d’un traduttore rappresenta un atleta addestrato a tutti gli esercizi di ginnastica, che sa trar partito da ognun de’ suoi membri e si presta ad ogni movimento piú strano cosí agevolmente che lo fa sempre parere il piú naturale, anzi l’unico»[34].

Alla passione con cui si accinse alla traduzione dell’Ossian contribuiva anche un interesse di letterato a dare un esempio di novità nella lingua nazionale, a spingere la nostra lingua poetica oltre i limiti di quella pusillanimità che egli le riconosceva. E poiché la sua rivoluzione portava sempre in sé i limiti della moderazione, l’Ossian diventava nelle sue mani un esempio decisivo di mediazione perfetta fra il nuovo gusto europeo e quello italiano settecentesco.

In tutta l’opera cesarottiana si può notare un’intelligenza equilibrata, un compromesso di Arcadia, illuminismo, preromanticismo, e senza l’Ossian non avremmo da accertare, a parte le alte intuizioni linguistiche, se non una certa delicatezza e freschezza sentimentale non troppo esigente, saziata in una Arcadia piú precisa e pensosa. Ma l’Ossian[35] portò ciò che allargava, senza pericolo, quelle possibilità fino alla guida di una nuova impostazione di linguaggio che sarebbe rimasta altrimenti inattuata. «Un cuore profondamente sensibile e penetrato da quella sua melanconia sublime che sembra il distintivo del genio, un’anima che trabocca e riversasi sopra tutto ciò che la circonda»: ecco i caratteri che egli ritrova nell’Ossian. Parole che, se partono piú da una fortunata intelligenza che da una aderenza profonda, suonano singolarmente nuove, decisive per la nuova letteratura e per il frutto piú notevole dell’attività cesarottiana. Si noti che il Cesarotti, che non ruppe mai con l’Arcadia, alla quale dedicò il Saggio sulla filosofia del gusto, avrebbe potuto, senza la sua larga e accogliente apertura e il suo audace gusto linguistico, arcadizzare o stilizzare parinianamente quel testo in una misura simile a quella di molti traduttori anche posteriori a lui e quale ci può essere indicata proprio da due strofe di una canzone del padre Monti per il ritratto del Cesarotti posto in Arcadia (1786):

Teco m’inoltro pavido

nelle morvenie selve:

odo il torrente fremere,

odo ruggir le belve:

tremo tra i sassi lubrici

dell’alpestre sentier.

D’atre piante funeree

nelle tenebre ascose

fra rotte pietre sorgono

verdi tombe muscose,

ove dormono il ferreo

sonno i cari a Fingal prodi guerrier.

Torve l’ombre grandeggiano

su per l’aereo nembo,

o delle nubi squarciano

il tenebroso grembo,

e pendon curve, attonite

di grata lira al suon.

Altre al Figlio degenere

tinte di pallor bianco,

insanguinato e lacero

mostran fremendo il fianco,

e d’alto grido assordano

l’onusta di trofei patria magion.[36]

Tutto il frasario arcadico e classicistico riesce ad adeguare e travestire i luoghi comuni dell’Ossian, a diluirli in misure non certo preromantiche. L’Arcadia parinizzata non riusciva a rompere la ricerca di una caduta gradevole, congiunta ad una preziosità elegantemente raccorciata come colmo della musica della poesia («e pendon curve, attonite / di grata lira al suon»), mentre il Cesarotti distende il suo discorso poetico, lo rende capace di accogliere movimenti piú lunghi e meno stilizzati, apre una nuova declamazione sentimentale pur mantenendola nei termini di una struttura tradizionale. Cosí, mentre i traduttori piú arcadici non riescono che ad arricchire la poesia illuministica di qualche motivo nuovo sulla via della languidezza, e i traduttori piú alla lettera non incidono sulla lingua poetica, il Cesarotti nella sua versione condiziona l’inizio di una poetica che vivrà nel nostro grande romanticismo neoclassico.

Nell’Ossian, il Cesarotti consolidò la sua spregiudicata simpatia per una letteratura che, senza urtare il suo ideale civile, accrescesse le risorse della fantasia e della lingua e secondasse quel vago bisogno sentimentale e spiritualistico che egli d’altronde non sentiva in contrasto con lo spirito dei lumi.

Questo spiritualismo tra sensistico e cristiano (ma senza approfondimento) non trovava nella salda concezione pagana di Omero[37] ciò che trovava nell’Ossian, gocciolante di una vaga e triste religiosità, anteriore al culto, ad ogni confessione e religione precisa: e però tanto piú attraente e poetica.

«Le verità del cristianesimo avrebbero aperto ad Ossian le fonti di un sublime e d’un mirabile propriamente divino ed in questa religione avrebbe ravvisato il modello di quella perfezione morale, ch’egli sapeva spirare senza riconoscerne l’autore. Ma se Ossian non poté dar alla sua poesia questa soprannaturale sublimità, egli almeno non l’infettò con le stravaganze degli altri poeti del gentilesimo, e ce la diede cosí pura e cosí perfetta, quanto ella potea prodursi coi semplici lumi della natura»[38]. E poiché in un’altra disquisizione sulle relazioni tra religione e poesia il Cesarotti arriva all’equivalenza cristiano-naturale, noi non troviamo qui solo il preannunzio della polemica romantica contro la mitologia pagana («senza Apollini, senza Muse, senza salire in groppa del Pegaseo, senza trasformarsi in cigno, il poeta sa rapir l’anima con un felicissimo, e naturale entusiasmo»[39]), ma soprattutto una posizione letteraria che, pure basandosi sulla vecchia formula della poesia cristiana, afferma un tipo di suggestione sentimentale e lo spiega in nome della natura, che diventa cosí una fonte di poesia pittoresca e sensibile, ma non piú solamente figurativa e sensuale. Si pensi alla religione tassesca della natura che comincia con l’Aminta e che aveva nutrito la letteratura italiana fino all’illuminismo e si troverà estremamente interessante questo accenno ad una natura, fonte di poesia religiosa: anche qui non proprio una rivoluzione (ché gli accenti tasseschi avevan mantenuto alla sensualità naturalistica una intima languidezza melanconica), ma trasformazione della sensualità in sentimentalità, della distensione in tensione, in presentimento di un di piú insoddisfatto ed essenziale: una mediazione verso l’anima preromantica che cela in sé, nella sua fragilità autunnale, le radici del potente inverno romantico. La natura cambia la sua animazione, perde la sua aurea perfezione primaverile, non è piú il vertice della gioia e della pace, il paradiso degli animi poetici, non colpisce piú per la sua armonia, per la sua organicità; assume un volto fremente e se pure da materna bontà istintiva passerà poi a matrigna crudele, nel corso del romanticismo, fin d’ora ogni suo atteggiamento serba un fondo di assorta melanconia, di severa tristezza che per lungo tempo non rivela le sue origini, le mantiene come in incubazione: permane come una divinità senza letizia e senza panismo, come la riserva spirituale di una umanità che sospira e trova in essa la fonte ed il conforto dei suoi sospiri. Sia che si bagni di languida pensosità come nell’Elegia di Gray o che si esalti in orrido come nell’Ossian, la natura preromantica è una voce di melanconia che sembra superare la volontà chiara degli scrittori, come supera l’equilibratissima libertà cesarottiana[40]. Questa nuova natura (e si badi bene che l’interesse a questa osservazione cresce proprio quando alla parola «natura» si dia il romantico significato di paesaggio dell’anima) non ha piú che scarsi legami con l’orrido barocco che tendeva alla meraviglia mentre il nuovo orrore tende alla commozione. Anche se quei tenui legami non mancano nel Cesarotti (residuo della grandiosità secentesca rimasta nella cultura poetica del Settecento come garanzia di qualche sfogo piú esuberante), e se egli fu spesso spinto al gusto dell’immagine anche da questo oscuro appello barocco, dell’Ossian ci sorprende come tutto nuovo questo senso di natura in tensione:

Tempestosa notte,

notte atra: rotolavano le querce

dalle montagne; il mar infin dal fondo

rimescolato dal vento mugghiava

terribilmente, e l’onde accavallandosi

le nostre rupi ricopriano, il cielo

mostravaci la felce inaridita

col suo frequente balenar. Fercuto,

vidi lo spirto della notte; ei stava

muto sopra la spiaggia; errava al vento

la sua vesta di nebbia; io ne distinsi

le lagrime; ei sembrava uom d’anni grave,

e carco di pensier.[41]

Basterebbe isolare un momento quella «felce inaridita» che singolarizza l’orrore della foresta durante il temporale, per indicare il nuovo atteggiamento poetico; o la presenza dello spirito della notte: in una simile figura mai s’era coagulata una immaginazione italiana. Ora la provvidenzialità del Cesarotti consiste appunto nel rendere accettabile una simile realtà sentimentale e poetica, nell’insinuare quell’atteggiamento di mestizia suggestiva in una immagine, in una figura che pure avesse la finitezza di una qualsiasi entità tradizionale. E quel fluire di sentimentalità si rapprendeva nel giro abilissimo e sonoro del verso, come non sarebbe stato possibile in una versione letterale o prosastica.

Il Cesarotti ebbe coscienza sia della difficoltà del suo compito, sia della rarità del lessico adoperato, delle immagini inusitate. Cosí vedremo in opera il suo gusto, la sua intelligenza critica nell’accennare la comprensione della novità, sia nel rilevarla sia nel moderarla. A questo doppio atteggiamento si può ridurre infatti il lavoro del Cesarotti nel fare sua l’opera del Macpherson; tutto il lavoro piú recondito della sua fantasia, della sua bravura letteraria, risulta in queste due direttrici: mettere in luce il nuovo, ma renderlo assimilabile alla letteratura italiana. Già nel dizionario poetico posto alla fine della versione possiamo notare la tendenza a mettere in rilievo le espressioni piú nuove secondo i concetti nuovi di vago, patetico, sublime ecc., che non mancano però, per la loro esemplarità, di rientrare nel gusto della novità preziosa, peregrina, secondo un vecchissimo gusto letterario e addirittura secondo un formalismo secentesco. Sono le gemme che egli ambisce di mettere in mostra con una leziosità che sfrutta il patetico preromantico ad un effetto quasi barocco:

Occhio natante in segreta lagrima

occhi soavemente lenti

occhio trabocca di amore e di lagrime.

O è l’indicazione, ma non del tutto convinta, di immagini piú sconcertanti:

i passi luridi dell’ombre

orridi spettri cavalcano su focosi raggi

la tempesta s’oscura nella tua mano.[42]

O è la designazione delle nuove categorie secondo la grandiosità della retorica

orribilmente sublime

terribilmente magnifica,[43]

espressioni che però, sia pure con la loro origine spuria, entrano a sommuovere l’educazione settecentesca, come pronte ad essere vivificate dall’impeto alfieriano. Espressioni che erano preparate (non bisogna scordarlo), dalle versioni di Pindaro[44], dei tragici greci, e naturalmente di Omero stesso:

Monti echeggiano e piagge, al par di cento

ben pesanti martelli alternamente

alzantisi, abbassantisi, sul rosso

figlio della fornace.[45]

Diremo subito che la fusione perfetta non riesce per lunghi tratti e anche nel singolo verso noi distinguiamo agevolmente quel tanto di irresoluto, di resistente alla piena liricità delle nuove immagini che insieme era la rivincita di una medietà sonora e versaiola sulla sommessa precisione stilizzatrice. La quale d’altra parte agisce soprattutto nella collocazione sintattica e in certi raccorciamenti eleganti. Si prenda questo verso e mezzo e si pesi il contrasto sanato solo esteriormente, solo letterariamente dall’onda metrica fra la novità del «sospira» e la precisazione piú minuta di «nel mezzo»:

aperta, oscura, nel mezzo del petto

sospira una ferita.[46]

Eppure il Cesarotti ha rilevato come centro apparente della frase proprio la seconda espressione, mentre favoriva la posizione iniziale e diremmo inaspettata della prima. La nuova sintesi formale ha dunque questa origine e questo risultato generale: attrae in un discorso poetico che parte dalla vecchia struttura verso una musica apparentemente piú vigorosa, in realtà piú diversamente accentuata, le nuove immagini, e, mentre le coagula in parole inevitabilmente nuove per il loro uso, le contrappesa con le espressioni già accettate dalla tradizione, coonestandole tutte sotto il manto di una nuova musica epica, di una grandiosità nuova, ma non eterogenea alla tradizione epica già accettata. Ecco cosí l’impegno di riaccostare nelle note le espressioni ossianesche, rifatte su questa nuova base, a frasi virgiliane od omeriche, ecco cosí il continuo confronto con il mondo classico, la giustificazione di certe deformazioni rispetto al senso comune con esempi di classici[47]. Mentre d’altra parte si riducono fin dove si può le audacie piú estreme dal punto di vista non tanto linguistico quanto ragionevole, addomesticandole, ammorbidendole. A volte è un modulo arcadico che smorza con un diminutivo l’effetto troppo brusco del testo («il suo segreto sospiretto» per il dolore amoroso di una fanciulla), a volte si insinua nella prosa del Macpherson un’arietta metastasiana, come si volesse arricchire col nuovo sentimento le forme tradizionali e con esse giustificare la nuova poesia:

O amabilissimo

figlio di morte,

sempre caro e vezzoso;

prendimi teco

dentro lo speco

del tuo riposo.[48]

È evidente che la nuova lirica vivrà invece piú intensamente proprio in quegli endecasillabi di sola apparenza epica e cosí scanditi in una musica sentimentale, e non nelle forme polimetriche legate alla liricità convenzionale della tradizione e che il Cesarotti pur non sentiva in contrasto con la sua accogliente poetica. Si ricordi d’altronde che il canto nelle sue forme settecentesche coesiste in Italia con i nuovi motivi e che nel pieno della grande poesia del Saul si slanceranno le cantate di David che dovevano pretendere, nelle intenzioni dell’autore, non solo ad una funzione drammatica, ma ad una loro liricità. E d’altra parte ciò che assumeva un movimento drammatico si svolgeva inevitabilmente in forma melodrammatica secondo l’esempio metastasiano. Sí che spesso per il Cesarotti è una questione di fili che ecletticamente presceglie a secondo l’argomento: all’amore, ad esempio, convengono le canzonette metastasiane, e il linguaggio ritorna a prestarsi a quello stile, senza esitazione:

Sí, sí, mio dolce amore,

di te mi sovverrò.

Ohimè! ma tu cadrai,

ohimè, se tu ten vai

per sempre, e che farò?

Sul muto prato,

sul cupo monte,

sul mesto fonte

di te pensando andrò.[49]

(Se mai si noti l’aggruppamento intenso di aggettivi non disdegnati dall’Arcadia, ma vicini alla sensibilità preromantica. Aggettivi adoperati per altro scopo, ma che facilmente in quel momento di passaggio venivano ripresi e usati in una lenta gradazione da vecchio a nuovo). Inoltre molto spesso le espressioni non verbalmente, ma logicamente piú audaci, lo inducono a lunghe spiegazioni che tradiscono la sua esitazione, la comprensione delle difficoltà dei lettori e dunque una sua preoccupazione tutta illuministica di chiarezza ad ogni costo. Per esempio nell’inizio della Morte di Cucullino.

(O nelle sale mie mormora il suono

della passata età?)[50]

egli sente il bisogno di spiegare: «bel-esprit Questa espressione entusiastica è alquanto ambigua. Il suono della passata età potrebbe significare la voce di qualche ombra; ma il senso piú verosimile pare che sia questo: la mia immaginazione riscaldatami farebbe sentire come presenti i discorsi e le voci degli eroi morti, o lontani dei quali mi accingo a cantare? Il principio del poemetto Colanto e Cutona favorisce questa spiegazione». Preoccupazione che mi ricorda quella di un commentatore universitario del Bateau ivre che alle «neiges éblouies» sosteneva doversi intendersi «éblouissantes», non potendo la neve stupirsi!

Le nuove immagini adatte a nutrire la fantasia il Cesarotti le accettava, ma le temeva quando non avevano anche una spiegazione logica veristica, per cui tollerava piú facilmente delle violenze linguistiche che non pure violenze fantastiche. E se sopporta qualche trasposizione ardita per un amore sincero della poesia, subito cerca di scusarsi, di giustificarsi come quando passa un: «le sospira il crine / al marin vento»[51].

Spesso cosí nella traduzione assistiamo ad una sostituzione in cui la violenza verbale è caricata a favore di una maggiore coerenza razionale: «lasciate l’orrida vermiglia luce» invece di «deponete il terrore del vostro corso». Ma a volte in questo gusto del circostanziato si può intravvedere anche una penetrazione sempre un po’ minuziosa, semplificatrice della nuova sensibilità, come quando aggiunge ai versi

e dei venti

erran sull’ale con vermiglie vesti

l’ombre de’ morti, e n’han diporto e gioia:

Ma gioia Ossian non sente.[52]

Di questa aggiunta non c’era nessun bisogno, ma il Cesarotti credeva cosí di chiarire meglio la sostanziale mestizia di ogni atteggiamento preromantico. Se nell’originale vi era «morti errano come ombre sopra la feroce sua anima», Cesarotti traduce:

su quell’anima atroce

errano tetre immagini di morte.[53]

Se nell’originale era:

e vide le agitate braccia di Strinadona,

Cesarotti svolge:

e vide

della donzella il tenero sospiro,

l’alzar del seno e il volteggiar del fianco,[54]

perché «il poeta intende di significare l’inquietudine amorosa della donzella; ma questo solo indizio non fa sentir abbastanza il suo intendimento. Il traduttore ha sostituiti alcuni altri contrassegni che hanno una relazione piú stretta colla passione di una giovine innamorata»[55]. Cioè secondo un razionalismo contenutistico che richiede una particolareggiata motivazione psicologica. E questa preoccupazione realistica arriva fino all’integrazione di ogni particolare:

ivi deposto l’elmo

de’ regi, altro ne prese[56]

«si sono aggiunte le parole “altro ne prese” perché non si credesse che fosse ito senz’elmo». Difficoltà a liberarsi dalla precisione sensistica e razionalistica che non tollera la immediatezza nei sentimenti:

vide Lunilla, se ne accese, e al padre,

avverso all’amor suo, trafisse il fianco.[57]

«L’originale non ha che queste parole: vide Lunilla dal bianco seno, e trapassò il fianco di suo padre. S’è creduto necessario di aggiungere le idee soppresse perché il sentimento non sembri strano».

Trassegli il brando: ei col pugnal di furto

trafisse il bianco lato.[58]

«Il testo ha solo: egli le trapassò il bianco lato coll’acciaro. Ma di qual acciaro si parla? La spada era già in mano di Morna. Parmi che questo termine non possa aver altro senso che quello che gli si è dato da me. L’avverbio “di furto” aggiunto rende il fatto un po’ piú credibile. All’incontro il Le Tourneur colla sua traduzione lo rende ancora piú difficile a concepirsi: Elle retire l’épée du sein du guerrier: Ducomar, en tourne la pointe sur elle, et perce son beau sein». Ed è sul metro della credibilità che il Cesarotti si vanta anche altrove di superare il celebre traduttore francese.

L’ideale è sempre conciliare il testo nuovo «colle idee del buon senso», dare «proprietà e vivezza», giustificare i sentimenti secondo uno schema realistico, secondo una deduzione chiaramente logica. Oppure spesso ci si richiama a princípi quasi secentisti, ma rilevati dalla presenza del sentimento, almeno di nome, nuovo. Cosí a proposito delle comparazioni: «L’imperfezion della lingua le introdusse, e il grand’effetto che fanno, le accreditò nella poesia. La loro soverchia presenza può bene esser disapprovata dai critici rigidi che meditano a sangue freddo: ma qualora questo magnifico difetto ci si presenta, esso abbaglia e seduce nel punto che si vorria condannarlo; e il sentimento, com’è dritto, la vince sopra il riflesso»[59]. Il Cesarotti era insomma piú disposto a sacrificare ad esuberanti sfoghi poetici una sobrietà lineare che non il buon senso e la coerenza psicologica e moralistica, sí che, mentre si affatica a frenare ogni movimento ingiustificato secondo le coordinate del contenuto, azzarda volentieri violenze verbali, che restano spesso anche stonate, legnose nella pasta generalmente fusa del poema:

«alla sbiadata mattutina luce»[60]

«il vento scese»

«dal mezzogiorno saltellon sull’onde»[61]

«le voci ululabili dei venti».[62]

Lingua spregiudicata e composita in cui una forma pretenziosa come «vetusto», citato nella sua nobiltà antica (La morte di Cucullino, v. 136), può permettere l’ingresso ad un «tombano in folla» (Temora, VIII, 217) e leziosi toscanismi coabitano con arditezze e con novità risolute. Novità che fanno pensare ai primi testi romantici 1816: solo che là quell’ibridismo nasceva da desiderio di una lingua piú popolare, mentre qui nasce da stonature non sempre evitate, sommerse, quanto alla musica, nella prepotenza dell’endecasillabo. Mentre d’altronde per mimetismo ingenuo tutto vien reso cupo, spesso in contrapposto con la terminologia classica: cosí la casa diventa sempre «l’angusta-scura magion». Dato che egli stesso confessa: «Io amo talora di avvivare il colorito di Ossian colle tinte di Ossian medesimo».

Naturalmente la stessa scelta della poesia per tradurre una prosa, poetica sí, ma prosa, indica subito la intenzione, comune ad altri traduttori, di rendere piú poetico l’originale, di renderlo poetico anche secondo gli attributi metrici che la tradizione italiana riteneva necessari. Ed ecco quindi quelle inevitabili amplificazioni che sciolgono la durezza, voluta durezza, dell’originale secondo la ornata floridezza italiana; ecco l’esemplarità di pochi aggettivi cedere alla massa dei riempitivi tradizionali anche se un po’ circostanziati dall’educazione sensistica. Cosí, se nel testo era brevemente: «But I will remain, renowned; the departure of my soul shall be a stream of light», il Cesarotti amplifica:

Ma rimarrò famoso, ed a seconda

entro un rio limpidissimo di luce

scorrerà l’alma mia placida e leve.[63]

Il Cesarotti cioè, a parte quelle stonature che egli evidentemente non avvertiva, intendeva fare di quel testo un poema organico, un tessuto «poetico», in cui la suggestione nuova fosse formata, concretata entro misure e armonia riconosciute come tali, in un discorso organicamente poetico che non lasciasse campo ulteriore all’iniziativa del singolo lettore, che fermasse sentimenti nuovi, come quelli omerici erano per sempre fermati nella prosa omerica. Era questa la prova migliore della tendenza formale, anche regolarmente formale, della letteratura italiana, che doveva vedere in quelle opere, pur cosí affascinanti, dei mostri, dei nonfiniti, in cui gridi poetici sembravano chiedere l’integrazione naturale della veste metrica e di un florido ornatus. E d’altra parte quest’opera provava anche le grandi possibilità di una letteratura che, radunando tutte le sue risorse, si disponeva ad accogliere una nuova sentimentalità, un impeto tendenzialmente rivoluzionario senza abdicare, e senza rinunziare d’altronde ad una nuova ricchezza.

Con il Parini abbiamo già assistito ad uno sforzo per suggellare ogni nuovo atteggiamento nella perfetta forma incisiva e classicheggiante, ma ora comparivano non piú sensazioni di cose, ma sentimenti fondamentali che non si prestavano alla precisa freddezza dei cammei: occorreva tentare un nuovo equilibrio e mentre il neoclassicismo sulle orme del Parini non riusciva a svilupparsi oltre certi limiti preziosi, fu l’arricchimento preromantico che preparò il grande romanticismo neoclassico italiano. Il Cesarotti appunto rappresenta questa apertura della letteratura italiana ai nuovi motivi e insieme la sua tendenza istintiva ad assimilarli nelle sue linee piú tradizionali. Se noi abbiamo voluto studiare come il Cesarotti operò per presentare, per mediare il testo ossianesco osservando anche le stonature inevitabili derivate dalla coscienza imperfetta del fondamento del nuovo gusto, dobbiamo ora considerare questa versione come un testo a sé stante, come il testo preromantico piú importante, come il testo cui guardarono Alfieri, Foscolo, Leopardi, su cui essi formarono la loro nuova abitudine ad un canto che fosse misura e sentimento: sentimento ordinato in una misura che non era piú quella semplicemente tradizionale, di conclusione, di vittoria formale, rinforzata poi dal loro sostanziale neoclassicismo.

Nella nostra letteratura, a questa sua svolta decisiva tra illuminismo e romanticismo, quando nuove energie spirituali stavano per crescere nella atmosfera romantica, quando stava per affermarsi una nuova coscienza della forma, della personalità poetica, della vita spirituale che deve urgere nella conclusione formale, l’Ossian cesarottiano diventava la prova vivente di una possibilità nuova della letteratura italiana e insieme una specie di «selva» poetica di motivi, di atteggiamenti nuovi, non lontani e sconcertanti, ma immersi nel decoro italiano, bagnati di quell’alto decoro letterario senza cui non sembrava esister poesia. E non rinnegava certe tenerezze arcadiche che sembravano essere presupposte dal nuovo languore romantico, non rinnegava la cura classicistica che dal Parini restava come una prova di immortalità poetica e che veniva a germogliare, nel neoclassicismo, in un amore dell’assoluto perfetto, del sublime classico. Entro questo eccellente compromesso letterario avvivato da un sincero amore della poesia, gli uomini dell’ultimo Settecento trovarono un nutrimento fantastico nuovo e non ripugnante. In quel poema affioravano decisamente i motivi nuovi, che, pur presentati dal Cesarotti piú come temi artistici che come motivi dell’anima, attraevano su di sé quella generica sentimentalità che s’andava accendendo nel nuovo clima spirituale. Era soprattutto il grande motivo romantico della malinconia, del dolore che, non originato da nessuna causa particolare, bagna le anime dei mortali, le riempie di sé non come momento accanto ad altri momenti, ma come unica vita, unico respiro dell’anima. Quella melanconia che l’Alfieri proverà come fondo essenziale, come tratto nobilitante del suo carattere, vive già negli eroi pensosi dell’Ossian, nella maturità meditabonda che non manca mai anche al loro vigore sanguigno, barbarico, che del resto il Cesarotti aveva naturalmente attenuato, sia per il suo gusto civile sia per la consapevolezza della ripugnanza dei gusti italiani per motivi che solo il Baretti con il suo amore shakespeariano poteva in parte affermare. Attraverso il Cesarotti la sagoma degli eroi volgeva la loro violenza verso l’atteggiamento di sublimità omerica (egli nel sangue alto rosseggia), ma con tutto ciò non si staccava dal tetro fondo da cui quelle azioni senza gioia derivavano. Azioni epiche, come quelle omeriche, ma sempre riviste nella memoria, come passato, da un triste presente di desolazione e di decadenza, involte in una nostalgia melanconica e appassionata. Poesia la cui musa può dirsi veramente la memoria acerba tanto invocata nell’Ossian. E per quanto il Cesarotti lavorasse per coordinare lo svolgimento interiore di quelle avventure, non poteva né voleva eliminare la prima causa che era il senso di infelicità che il preromanticismo veniva creando. Senso centrale di infelicità come era stato centrale il senso di fondamentale benessere di edonismo, di virtú attiva e soddisfatta del primo Settecento, prevalenza dell’anima prima di ogni sua pratica operazione, nella sua intera apertura che non trova piú soddisfazione nei metodi minuziosi e dedotti della ragione. Il romanticismo saprà dare a questa infelicità il suo motivo piú chiaro di spinta verso un assoluto che non riesce a realizzare, di protesta e richiesta religiosa contro le cose che sembrano mute ed ostili all’anima la quale sogna uno sviluppo infinito, ma il preromanticismo veniva già assaporando una vita melanconica che nasceva dalla nobiltà delle anime piú vicine al senso del mistero della natura, alla solitudine della natura cosí contrastante con la domestichezza idillica della natura settecentesca.

L’anima preromantica trovava la sua prima serietà, il suo sospiro commosso, non disperato, nella vicinanza nuova alla natura non piú considerata a piccole sezioni miniaturistiche, ma nel suo ritmo pauroso di vita che sembra assorbirci e superarci, nel suo persistere primitivo fuori di ogni possibile progresso, nel suo ripetere una parola misteriosa e solenne che stimola in noi la riflessione sul tempo, sull’eterno, sulla nostra caducità, elude la nostra paziente capacità speculativa e suscita l’unica misura con cui possiamo adeguarci a quel ritmo, il sentimento. E il sentimento nasce doloroso, si rivendica sospirando dalle linee limitatrici e fiduciose della ragione. La rivolta preromantica si alimenta sí delle varie intuizioni filosofiche, etiche e estetiche dei Rousseau e Diderot, ma soprattutto è la nascita del sentimento doloroso, la scoperta di una malinconia configurata in un paesaggio che sembra ora il vero volto della natura. E se il tono medio della sentimentalità preromantica specialmente in Italia diventerà un senso ombroso di bonaria tristezza senza punte disperate, fino all’irruzione Alfieri-Foscolo, se prevarrà il simbolo cimiteriale con la sua educata melanconia, gli inizi sono in coloro che della natura scoprirono il volto pauroso e desolato, svegliarono il loro sentimento in un incubo di orrore, alla presenza di forze non piú stilizzate in simboli ed ornamenti, ma ascoltate nella loro voce tragica, testimoni di un dramma fuori dell’ambito civile dell’uomo. Certo nel periodo arcadico e pariniano non erano mancati accenti di languore e di sospirosità, ma essi potevano pretendere alle anacreontiche dei Vittorelli, a una vaga sentimentalità che non si nega mai una vita di uscita piacevole, ad una trepidazione che può assimilarsi piuttosto equivocamente al sentimentalismo preromantico per quanto anche questo ha di vago, di dolciastro. Ma le origini sono ben diverse e mentre là è un estenuamento della perfezione arcadica, qua è la nascita di una nuova anima e di un nuovo gusto. La loro coesistenza precisa meglio i caratteri del preromanticismo italiano, ma non si spiega direttamente come successione causale.

Il motivo piú nuovo è dunque il nuovo paesaggio, che portava con sé la melanconia e la pensosità: di fronte ai giardini in cui viveva la fantasia degli arcadi, o ai facili «orridi» delle ville settecentesche, si presentava una natura che, con la giustificazione del Nord e del tempo lontano[64], era configurata proprio come opposta alla dolce natura mediterranea che gli italiani avevano sentito come una conferma della serenità della vita. I deserti amati dall’Alfieri[65], le cupe selve, gli orridi abissi avevano già cittadinanza letteraria nell’Ossian e fra solitario bosco ombroso e tacito orror di solitaria selva sono le insistenti monotone invocazioni dell’Ossian, di un paesaggio tetro, pregno di dolore e di orrore. Perché l’orrore allibito diventa una delle condizioni fondamentali dell’anima preromantica, come la trepida estasi lo era stata dell’anima arcadica: l’orrore rappresenta la reazione piú violenta di questo spiritualismo preromantico. Condizioni dell’anima tanto piú accettabili nel Settecento perché presentate come proprie di un poema, di un clima, di una storia, non create da una diretta espressione personale.

Era la natura del Nord e come tale poteva coesistere accanto a quella piú propria della tradizione[66]; ma a parte la suggestione che si aggiunse per il fascino della lontananza e del contrasto quelle condizioni furono sentite da molti come eterne e moderne[67], come approfondimento dell’animo poetico. Lo stesso petrarchismo, cosí tenace nella sua fedeltà tradizionale, ne sarà toccato e svilupperà il suo fondo di tristezza fino a cambiarlo in disperazione e tetraggine.

In questa natura immane e vivificata da quei colloqui appassionati, da quelle apostrofi che resteranno caratteristiche del nostro romanticismo, il senso e il nome stesso della morte cominciano ad assumere una centralità e una dignità poetica particolare: la morte sembra addirittura capace di scatenare una sensibilità piú profonda di quella normale ed è a quella immagine che convergono le fila dei poemetti, verso quella il linguaggio si fa piú mosso e delicato (cadde, e alla morte nel cader sorrise[68]), e tutto ciò che significa la sua presenza assume un valore simbolico e poetico. Anche i duelli non sono piú che una rapida preparazione alla morte e alla tomba e il presentimento di queste domina quegli episodi piú di ogni spirito eroico ed epico. Cosí il motivo della tomba abbandonata e solitaria, su cui il tempo ha cancellato ogni traccia di riconoscimento personale, diventa uno dei motivi piú suggestivi, letterariamente piú calcolati per un sicuro effetto poetico.

Son quattro pietre la memoria sola

che di te resta; e un arboscel già privo

dell’onor delle foglie, e la lungh’erba

che fischia incontro ’l vento, addita al guardo

del cacciator, del gran Morad la tomba.

Tu se’ umíle, o Morad; tu non hai madre

che ti compianga, o giovinetta sposa,

che d’amorose lagrime t’asperga...[69]

Uno di quei motivi che potevano suscitare o un approfondimento o, come piú spesso avvenne, una sentimentalizzazione di ogni espressione letteraria. L’Alfieri, il Foscolo, il Leopardi porteranno a un vero significato poetico la morte, la tomba, ma nell’atmosfera letteraria se ne diffondeva il calore poetico, la qualità di simbolo sicuro e suggestivo. E come la morte, la notte, non per il placido senso di quiete che le si poteva riconoscere, ma per gli orrori che le sue tenebre creano, per la sua vicinanza fantastica alla morte. Anche il sole stesso, fino allora simbolo di serenità e di vita, assume un aspetto o maniaco o corrucciato, la sua bellezza diventa terribile, implacabile, come un mostruoso eccezionale potere:

Sole del ciel, quanto è terribil mai

la tua beltà, quando vapor sanguigni

sgorghi sul suol, quando la morte oscura

sta ne’ tuoi crini raggruppata e attorta![70]

La poesia diventa malinconica, lo stato di entusiasmo tradizionale, il furor poeticus, si trasforma in uno stato di profonda sospirosità. La tristezza è la vita della poesia, il sublime stesso cerca le sue basi in una pensosa tristezza[71]. Il poeta esclama ormai come farà l’Alfieri: «La mestizia è in me natura», e scoprirà in ciò la ragione stessa della sua vocazione. Ciò che nascerà come nuovo sentimento potente e cosciente è ancora nel preromanticismo una sensibilità, un malessere non bene spiegato. Ma comincia a ricorrere ormai «l’anima appassionata», anche se la sua passione manca proprio della energia che vi porterà l’Alfieri. D’altra parte, a questa selva poetica di motivi nuovi il Cesarotti cerca di dare una costruzione di poema, sulla scorta del poema che pareva piú vicino, quello omerico, e perciò, per quanto riporti il clima essenziale alla malinconia, vestendola di vesti italiane, scorcia dove può la sovrabbondanza d’immagini, anche perché non intuisce l’intento nell’originale di creare suggestioni con il cumulo delle immagini, e preforma cosí un preromanticismo italiano piú sobrio, piú capace di fondersi con i succhi neoclassici. E pure in questa limitatezza la versione cesarottiana dà una sicura patria a sentimenti poetici che sarebbero rimasti lontani, se informi dal punto di vista dei letterati italiani. Mentre poi la cosa piú importante è che i nuovi poeti italiani troveranno nell’Ossian non solo un nutrimento nuovo, una guida sentimentale, ma anche un esempio di sintesi formale che resterà per molto tempo esemplare nella nuova letteratura.

Nelle parti piú distintamente liriche il Cesarotti si dà a ricerche piuttosto goffe (come quando in una canzone «a tutto il corpo delle truppe caledonie» «il traduttore si studiò di imitare col suono lo schiamazzo di un’armata vittoriosa»), a ricerche che stimolano un linguaggio composito, incerto, somigliante un po’ ai primi tentativi della scuola romantica, la quale agiva però nello schema della poesia ingenua e popolare[72]. Ma la scelta in realtà è fatta in un ambito molto letterario e se vi sono delle forme apparentemente popolari queste sono invece forme toscaneggianti[73] e antiquate tratte dal loro naturale ambiente. Spesso è la stessa introduzione di nomi barbarici, cosí diversi da quelli tradizionali, che stimola il verso ad un suono nuovo, ad una spregiudicatezza maggiore, o entrano posizioni nuove di parole già usate che danno nuovo sapore al verso:

Come tarlate vacillanti

querce, che il vento occultamente atterra.[74]

Penetra una sentimentalità che rallenta il verso e gli dà un’onda musicale lunga e stanca, ma sostenuta in una misura che non manca mai di armonia finale:

al re di Morven

fuggiamo immantinente: in tua difesa

armato ei scenderà: steso è il suo braccio

sugl’infelici, e gl’innocenti oppressi

circonda il lampo dell’invitta spada;

su figlio di Ratmor; dilegueransi

l’ombre notturne, i passi tuoi nel campo

discoprirà Duntalmo, e tu dovrai

cader nel fior di giovinezza estinto –.[75]

E certo, malgrado le sue simpatie per forme rimate e polimetre, appena il traduttore può, reagisce allo spezzettamento mimetico colla forza del suo endecasillabo, e allora la nuova sintesi riesce veramente: un endecasillabo in cui il fremito della nuova sensibilità non esorbita, ma solleva gli accenti secondo una musica sempre patetica e non svenevole, sempre sentimentale eppure virile, quasi epica, un endecasillabo che resta la spina dorsale del romanticismo neoclassico italiano fino al Leopardi[76]. Questo è il maggior risultato del Cesarotti: aver creato un organismo musicale che risolve concretamente la mediazione tra vecchio e nuovo, che rappresenta una misura nuova, ma riproducente la forma essenziale delle vecchie misure. E mentre alcune stranezze contenutistiche di diretta intrusione del testo tradotto restano senza alcun seguito (come il canone di beltà femminile ossianesca delle «brevi ciglia»), resistono certi moduli di sentimentalità armonizzata che ci sembrano, tanta è la forza della tradizione formale, presentimenti delle immagini nuove quali verranno realizzate nel grande romanticismo neoclassico («pallidi in volto i figli della morte»). Mentre il Macpherson aveva cercato di mantenere con la spezzatura delle frasi la primitività della contraffazione, il Cesarotti involge tutto in una pasta uniforme e letterariamente perfetta. C’è in lui l’esempio del Caro, c’è tutta la presenza della tradizione epica italiana, l’assottigliamento sentimentale di Virgilio sulla grandiosità omerica e il senso conclusivo pariniano e il canto interno dell’Arcadia.

Da questa fusione restano giri che non si scordano e che non resteranno senza eco (nutriti di un’aria nuova eppur costruiti poeticamente), che si faranno piú veri nella grande sintesi leopardiana:

Ove son ora, o duci,

i padri nostri, ove gli antichi eroi?

Tutti già tramontar, siccome stelle,

che brillaro, e non son...[77]

I poeti che verranno saranno presi da questo suono mesto e sicuro[78]:

in mezzo a Selma

crescerà l’erba, e ’l musco alto degli anni[79]

E che mai guati, o graziosa stella?

Ma tu parti e sorridi; ad incontrarti

corron l’onde festose, e bagnan liete

la tua chioma lucente. Addio soave

tacito raggio: ah disfavilli omai

nell’alma d’Ossian la serena luce.[80]

... e tu dovrai

cader nel fior di giovinezza estinto.[81]

... il suono è spento,

spento per sempre; il tuo diletto è un’ombra.[82]

Le parlate alla luna, gli interrogativi ansiosi e affettivi, tesi e pervasi di sentimenti delusi, sono il simbolo piú vivo di questa poesia preromantica:

Ma dimmi, o bella luce, ove t’ascondi,

lasciando il corso tuo, quando svanisce

la tua candida faccia? Hai tu, com’io,

l’ampie tue sale? O ad abitar ten vai

nell’ombra del dolor? Cadder dal cielo

le tue sorelle? O piú non son coloro

che nella notte s’allegravan teco?

Sí sí luce leggiadra, essi son spenti

e tu spesso per piagnerli t’ascondi.

Ma verrà notte ancor che tu, tu stessa

cadrai per sempre, e lascerai nel cielo

il tuo azzurro sentier.[83]

E tu cadesti

figlio della mia fama? Oscar mio figlio

non ti vedrò piú mai? quand’altri ascolta

parlar de’ figli suoi, di te parola

piú non udrò?[84]

Interrogazioni che si faranno cosí trepide nella poesia leopardiana e che, nella loro sospirosa tensione, eran sentite dal Cesarotti come modulo adatto a quel «sublime» che unisce alla domanda angosciata dell’uomo la presenza terribile di una natura maestosa, insieme sensibilizzata ed estranea.

O tu che luminoso erri e rotondo,

come lo scudo de’ miei padri, o sole,

donde sono i tuoi raggi? e da che fonte

trai l’immensa tua luce? Esci tu fuora

in tua bellezza maestosa, e gli astri

fuggon dal cielo: al tuo apparir la luna

nell’onda occidental ratto s’asconde

pallida e fredda: tu pel ciel deserto

solo ti movi. E chi potria seguirti

nel corso tuo? Crollan le querce annose

dalle montagne, le montagne istesse

sceman cogli anni; l’ocean s’abbassa,

e sorge alternamente; in ciel si perde

la bianca luna: ma tu sol, tu sei

sempre lo stesso, e ti rallegri altero

nello splendor d’interminabil corso.

Tu quando il mondo atra tempesta imbruna,

quando il tuono rimbomba, e vola il lampo,

tu nella tua beltà guardi sereno

fuor delle nubi, e alla tempesta ridi.

Ma indarno Ossian tu guardi: ei piú non mira

i tuoi vividi raggi, o che sorgendo

con la tua chioma gialleggiante inondi

le nubi orientali, o mezzo ascoso

tremoli d’occidente in su le porte.

Ma tu forse, chi sa? sei pur com’io

sol per un tempo, ed avran fine, o sole,

anche i tuoi dí: tu dormirai già spento

nelle tue nubi senza udir la voce

del mattin che ti chiama. Oh dunque esulta

nella tua forza giovenile. Oscura

ed ingrata è l’età, simile a fioco

raggio di luna, allor che splende incerto

tra sparse nubi, e che la nebbia siede

su la collina: aura del nord gelata

soffia per la pianura, e trema a mezzo

del suo viaggio il peregrin smarrito.[85]

Questo «sublime» che richiede una misura poetica slanciata e solenne come il verso cesarottiano, aveva accanto il sublime piú familiare dell’Elegia campestre del Gray che il Cesarotti tradusse, quasi a completare il suo quadro preromantico. Sale dall’Elegia campestre un’aria mansueta di tristezza in una natura meno grandiosa, resa umana per la sua semplicità: sono gli scambi di una natura che raddolcisce e rende vago il pensiero della morte, e di una sentimentalità in cui ogni finalismo spirituale sembra ritorcersi nella commozione dell’animo che si comunica a quella natura. Un senso autunnale maturo e languido che rende l’immagine della morte come una vaga immagine di giovane donna sfiorita, una pietà lenta, una disperazione senza grido, la comprensione di un naturale dolore che non è sventura inaspettata e terribile. Motivo di elegia funebre che dominerà nella nostra poesia fino al Leopardi e che è entrato nel gusto del secolo là dove ha saputo mantenere il predominio sul semplice formalismo neoclassico, come in certi sensibili cimiteri di metà Ottocento, in cui piccole urne, steli eleganti, colonnine senza enfasi si alternano a cipressi, in un ordine un po’ abbandonato, in una commozione tenera e giovanile. Il Cesarotti in verità sviluppò assai poco questo motivo e se mai cercò di ossianeggiarlo, di cavarne un patetico piú significativo in una natura piú selvaggia e drammatica.

Ma accanto a questo «sublimissimo» preromantico, consistente dunque non solo nella solennità delle immagini, ma nel carattere eccezionale di questo colloquio sovrumano in cui, fuori delle consunte utilizzazioni tradizionali, sole, luna, astri sono sentiti come immense creature animate, come occhi aperti pensosi sulla vita degli uomini, c’è anche un sublime, diremo, neoclassico, il sublime omerico, che nasce dalla perfezione dell’individuo e dal raccorciato gesto che lo eterna nella sua divina presenza:

Ei tornava da caccia, avea la lancia

rossa di sangue, torvo il volto e chino;

e fischiava per via;[86]

dove c’è il ricordo sbiadito dell’Apollo dell’Iliade mentre scende con la faretra sonante. E mercé la vicinanza di questi due sublimi anche in quello omerico scende il senso melanconico e primitivistico del primo, cosí che nuovo sapore verrà dal Cesarotti anche alla piú stringata utilizzazione neoclassica. Si pensi al Monti, al Foscolo con le sue idee sul poeta primitivo. Concetto centrale a cui l’Ossian dà l’avvio piú deciso in Italia. Ossian appare come un Omero piú vivo e moderno e cosí permetterà un nuovo amore per lo stesso poeta greco, offrendo quasi una possibilità intima di fusione di motivi preromantici e neoclassici come base di una completa sintesi.

Sintesi di una estrema abilità e di estrema resistenza, se i suoi esempi concreti continuarono ad agire nella loro suggestiva intonazione poetica ben addentro alla prima metà dell’Ottocento[87].

Mentre l’Arcadia si estenuava e il parinianesimo si precisava in un gusto di decoro neoclassico, la sintesi letteraria dell’Ossian cesarottiano offriva un modo poetico nuovo eppur incapace di urtare la comprensione tradizionale, e portava un invito a riempire i nuovi moduli stilistici di una nuova e coerente anima poetica. La sintesi cesarottiana attendeva l’irruzione della passione alfieriana e foscoliana, anche se i suoi limiti coscienti non arrivano davvero fino alla comprensione di quelle nuove personalità. Quando il vecchio Cesarotti lesse le Ultime lettere di Jacopo Ortis scrisse ad un giovane amico: «Foscolo mi spedí la sua storia che è una specie di romanzo intitolato Le ultime lettere di Iacopo Ortis. Egli ha ben ragione di dire che lo scrisse col suo sangue. Io mi guarderò bene dal fartelo leggere: perché è fatto per attaccare una malattia d’atrabile sentimentale da terminare nel tragico. Io lo ammiro e lo compiango».

Se tale era il limite del preromanticismo cesarottiano, la musica dell’Ossian seguitò a vivere nell’orecchio e nell’anima dei nostri maggiori romantici come una delle piú alte e suggestive che essi ascoltassero fuori del mondo della tradizione, come la piú moderna e primitiva insieme, nuova, straniera e perciò piú affascinante, e pure perfettamente italianizzata.


1 Anche il Croce, poco tenero per questi studi di poetica, ha riconosciuto in una recensione al mio studio M. Cesarotti e il preromanticismo italiano («Civiltà moderna», 1941, n. 6, 1942, n. 1), uscita sulla «Critica» del 20 maggio 1942, l’importanza di un lavoro sull’Ossian e sul suo traduttore per la storia della civiltà settecentesca. «È il principio di un saggio, condotto con acume e finezza, nel quale, esposta la genesi e segnati i caratteri del preromanticismo europeo, si passa a studiare il Cesarotti, personaggio per questa parte rappresentativo. Cosí si vien lumeggiando un aspetto dello spirito europeo e italiano nel Settecento, di non poca importanza per la vita morale, e, piú tardi, anche politica». Naturalmente è chiara la volontà del Croce di ricondurre questo studio nell’ambito di studi del costume esautorando la sua funzione storico-letteraria, dato che, secondo il piú genuino pensiero crociano anche nelle linee del libro sulla Poesia (poesia e letteratura), storia della poesia è storia di valori realizzati, quindi di chiuse monografie. Ogni forma di collegamento storico fra l’espressione realizzata e la tradizione letteraria desta cosí sospetto di sociologismo e di contenutismo nel Croce, che quindi coerentemente accentua nella citata recensione il carattere di studio di morale, di materia poetica. «Scrive giustamente il Binni che il valore dell’Ossian cesarottiano va misurato non su quello di una poesia realizzata, quanto su quello di materia poetica, d’intenzioni, di fulgurazioni poetico-sentimentali: il valore di aprire un nuovo mondo, a suo modo, già italianizzato, già risolto in un nuovo equilibrio. Le parole che ho spazieggiate dicono che la ricerca che qui si fa non è di storia della poesia, ma volge sui sentimenti, le immaginazioni, la sensibilità di quel tempo, mera “materia”, che sarà poi o non sarà elevata a poesia; donde consegue altresí che alla storia della poesia non appartengono neppure le “Poetiche”, cioè i programmi di una poesia da fare, perché quella storia ha per oggetto non già la poesia “programmatica”, ma (come la chiama il Binni) la poesia “realizzata”».

2 M. Cesarotti, Epistolario, Firenze 1811, II, p. 189.

3 Ivi, III, p. 22.

4 M. Cesarotti, Versioni, poesie latine, iscrizioni, Firenze 1810, p. 424.

5 M. Cesarotti, Epistolario, ed. cit., I, pp. 9-11.

6 Poesie di Ossian, Pisa 1801, I, pp. 13-14.

7 Ivi, I, pp. 12-13.

8 Ivi, I, p. 13.

9 Ivi, IV, pp. 183-184, 185, 200.

10 Ivi, IV, p. 139.

11 Dal frammentario Saggio sul Bello (in Opere scelte, a cura di G. Ortolani, Firenze 1945, I, p. 376) in cui molti momenti di scarso valore speculativo sono però illuminanti per il gusto, per la poetica cesarottiana. Cosí la stessa divisione del Bello visibile in «Terribile, Ammirabile, Dilettevole, Toccante», il continuo sottinteso riferimento alla esperienza dell’Ossian («Quelle montagne che sembrano coeterne al mondo, quella quercia di cui niuno de’ coetanei si ricorda l’origine, hanno un diritto alla mia ammirazione, come partecipanti alla eternità, o superiori di tanto allo spazio della vita umana...

«La forza è una grandezza nella quantità d’azione, e può anche dirsi grande nella estensione rapporto agli effetti. Ella si rammassa per resistere, slanciarsi e dilatarsi con maggior impeto.

«La forza è la rappresentazione piú energica della potenza. Le pitture poetiche della Divinità non sono mai piú sublimi e piú belle che quando le fanno comparir sulla scena fra le tempeste e le folgori. Veggansi i Profeti, Omero, Ossian, Klopstock, Milton»; pp. 351-352). Questo è ciò che forma il Bello terribile, mentre le qualità classiche di simmetria, regolarità vengono ripudiate nell’ambito di «generi» in cui esitano residui di retorica barocca e premono i nuovi impeti preromantici: «Il simmetrico ripugna ai due sommi generi, il grande e il patetico. Demostene, Bossuet, Tacito, Ossian sono bruschi, irregolari, sprezzanti» (p. 363). E insieme una caratteristica unione settecentesca di Bello intellettuale e sensibile («Il Bello intellettuale, quando si associa col sensibile, comunica ad esso un piacere piú squisito, e mentre spiritualizza la sensazione materiale, dà in certo modo un corpo allo spirito»; p. 369) ed una conciliazione del vecchio senso dell’arte perfetta, armonica («l’arte che tutto fa nulla si scopre») e della nuova volontà di una spontaneità e di un vigore in tensione: «Non è dunque a stupire se nelle scene della Natura la magnificenza, la grandezza, la varietà ci arrestano con piú diletto che la regolarità e la simmetria, la quale in compenso ci appaga meglio nell’arte. V’è però un modo di conciliarle senza parer di volerlo. Questo è ciò che prefigge il valente Giardinista formando i suoi paesaggi. Egli ha per assunto di unire insieme le varie scene campestri, accozzandole quasi a caso con la stessa negligenza della Natura; ma facendo che l’ordine e il disordine successivi o mescolati servano a darsi un risalto reciproco con un artifizio tanto piú fino, quanto meno riconoscibile. Egli dispone gli alberi, i prati, i ruscelli, le valli, i boschi, le balze, le grotte per modo che procaccino allo spettatore ora una successione, ora un intreccio di spettacoli regolarmente irregolari, e contrastati senza sistema, nei quali previene la sazietà, irrita i desideri, prepara le sorprese senza farle presentire: ... il piú bel composto sarà sempre quello che fa trovar arte nella Natura e la Natura nell’arte» (pp. 363-364).

12 M. Cesarotti, Epistolario, ed. cit., I, p. 158.

13 Ivi, II, p. 53.

14 Ivi, II, pp. 57-58.

15 La posizione avanzata del Cesarotti in campo poetico, ma controllata e trattenuta da un generale inquadramento illuministico, è ben chiarita dalla precisazione aggiunta ad una osservazione piú ardita: «Fortunata la sua ignoranza che produsse un pezzo cosí toccante! Se Ossian avesse conosciute le cause fisiche delle fasi lunari, egli non ci avrebbe esposto che una fredda dottrina. La poesia cava ben piú partito da una illusione interessante, che da una verità fredda. Ma convien distinguere esattamente l’illusione dall’assurdità» (Ossian, II, p. 348).

16 Ossian, I, p. 306.

17 Scritto poi ripudiato dal Cesarotti come immaturo e uscito nel 1762; poi nelle Opere, vol. XL, Pisa 1813 e ora in Opere scelte di M. Cesarotti, a cura di G. Ortolani, ed. cit., I, da cui cito.

18 Pure auspicando una poesia basata su motivi universali, non nazionali, sembra preludere ai motivi essenziali del romanticismo 1816 quando, lodando il Chiabrera per la sua originalità nello scegliersi come genere la poesia «entusiastica», lo rimprovera per aver fatto eccessivo «scialacquo di favole, le quali non essendo attaccate alla Religione, o all’interesse nazionale, né trovando credenze nell’opinione del popolo, perdono la maggior parte del loro incanto» (p. 240).

19 Ed. cit., p. 238. Si leggano anche questi esempi di verve polemica sulle regole: «Omero compose l’Iliade, i maestri dell’Arte presero da quella le regole del Poema Epico: ma egli compose pur l’Odissea, poema di natura molto diversa. Omero non poteva errare; bisognò dunque conciliarlo con se stesso; si racconciarono le regole alla meglio, e si fecero cangiar aspetto, come un vasellaio, accorciando o allungando la stessa creta, d’un orciuolo farà una pentola. Supponghiamo ora, che Omero non avesse cantato che l’ira di Achille: crediamo noi che, dopo le regole dell’arte, un altro avrebbe avuto coraggio di celebrare i viaggi di Ulisse? e se l’avesse fatto, i critici sarebbero stati forse tanto indulgenti? Quante speciose ragioni per negargli il titolo di Poeta Epico! Per non parlare della somma differenza dell’uomo, del tempo e dell’azione dei due Poemi, punti tanto essenziali secondo i critici, che meschinità di soggetto (si sarebbe detto) indegna della maestà dell’Epopea! Nell’Iliade il fiore degli eroi assedia la capitale dell’Asia, nell’Odissea un uomo piuttosto padre che Re, con una banda di compagni ignobili, sconosciuto, mal in arnese, si mette in viaggio per rivedere il nativo suo scoglio: ivi gli Uomini e gli Dei sono in guerra; qui il Re travestito fa alle pugna con un pezzente ecc. ecc. Se Dante fosse nato dopo il Tasso, nel secolo in cui le regole e gli esempi degli antichi avevano un’autorità religiosa, la forza e vastità della sua fantasia sarebbe sembrata stravaganza e vaneggiamento» (ed. cit., pp. 235-236).

20 Ivi, p. 245.

21 Ossian, ed. cit., I, p. 223.

22 Pronea, in Poesie originali, Firenze 1809, pp. 1-63.

23 Poesie originali, pp. 12 e 13.

24 Ivi, pp. 3-4 e 63.

25 Ivi, p. 292.

26 M. Cesarotti, L’Iliade o la Morte di Ettore, Venezia 1795, I. p. XXXVIII.

27 L’Iliade d’Omero recata poeticamente in versi sciolti italiani dall’Ab. Melchior Cesarotti insieme al volgarizzamento letterale col testo in prosa, Padova 1786, vol. IX, pp. 288-289.

28 L’Iliade cit., vol. V, p. 140.

29 Saggio sulla filosofia delle lingue, in Opere scelte cit., I, p. 19.

30 Ragionamento preliminare al corso ragionato di letteratura greca, in Opere scelte cit., I, p. 303.

31 Saggio sulla filosofia delle lingue, ed. cit., I, p. 12.

32 Ivi, p. 138.

33 E nel «Discorso preliminare» (Ossian cit., I, pp. 5-6): «Se mai traduttore meritò questa equità... par certo che debba meritarla chi si mette a lottare con un originale della tempra di Ossian... Le sue virtú e i suoi difetti sono ugualmente intrattabili, ed egli resiste per ogni lato alla forza e alla desterità di chi vi accosta. Io non avea per istrumento della mia fatica che una lingua felice a dir vero, armoniosa, pieghevole forse piú di qualunque altra, ma assai lontana (dica pur altri checché si voglia) dall’aver ricevuto tutta la fecondità, e tutte le attitudini di cui è capace, e per colpa dei suoi adoratori, eccessivamente pusillanime». E sempre nel Discorso il Cesarotti mostra bene di aver coscienza dell’ammorbidimento che egli faceva del testo per mediarlo al gusto italiano e dell’utilità della sua opera per un arricchimento della poesia italiana: «Io so bene che alcune di queste locuzioni non sarebbero sofferte in una poesia che fosse originariamente italiana, ma oso altresí lusingarmi che abbia a trovarsene piú d’una che possa forse aggiungere qualche tinta non infelice al colorito della nostra favella poetica, e qualche nuovo atteggiamento al suo stile! Questo è il capo per cui specialmente può rendersi utile una traduzione di questo genere, e questo è l’oggetto ch’io mi sono principalmente proposto» (op. cit., p. 2).

34 Saggio sulla filosofia delle lingue, ed. cit., pp. 107-108. Il Cesarotti mostrò piú volte il suo orgoglio di «traduttore originale» e le sue varie osservazioni in proposito formano quasi le linee intelligenti e sensibili di un trattato sul tradurre che doveva ben collocarsi nel secolo in cui questa attività assurse alla sua massima autorità coincidendo con il desiderio europeistico, insieme volgarizzatore dell’illuminismo e mediatore a nuove aure poetiche del preromanticismo. Si leggano cosí le considerazioni sulla versificazione e la fedeltà nel tradurre che riconducono alla complessa azione del Cesarotti, letteratissima e provvidenziale nella sua tecnica di concessione al nuovo gusto e di limitazione tradizionale: «I traduttori, volendo metter in vista la difficoltà delle traduzioni, calcano unicamente sopra la diversità del linguaggio: ma non mostrano di sentire un’altra difficoltà, con cui è lor necessario di lottare, e che per mio credere è ancora piú grande: voglio dire quella che nasce dalla diversità della versificazione. Egli è certo che i sentimenti, i pensieri, e le espressioni prendono da se stesse un tornio e una configurazione corrispondente alla versificazione rispettiva de’ varj poeti. La brevità, o la lunghezza del verso, la varietà delle flessioni, delle pose, delle cadenze, l’armonia che risulta naturalmente dal numero, e quella che nasce dall’aggiustatezza delle consonanze, il diverso intralciamento, e la distribuzione delle rime: ciascheduna di queste cose modifica i sentimenti, e comunica loro una bellezza propria, e distinta da tutte le altre. Si trasferiscano gli stessi sentimenti in un altro metro; si cangi la disposizione; si alternino le misure: tutto è guasto. Le idee aggiustate sopra un altro metro, stanno, per cosí dire, a disagio in questo nuovo, e prendono attitudini violente o scomposte: si forma una discordanza disgustosa fra i sentimenti ed i suoni: gli oggetti non si presentano piú sotto il punto di vista conveniente: l’orecchio, ed in conseguenza lo spirito, si riposa in luoghi poco opportuni, e sdrucciola su quelli, ne’ quali dovrebbe arrestarsi; e la composizione la piú perfetta diventa simile ad un bel corpo con tutte le membra slogate... Egli è dunque indispensabile in una traduzione di gusto, d’alterar un poco l’originale per vero spirito di fedeltà; e poiché le nostre misure non si adattano a quei sentimenti, di rassettare e girar in modo i sentimenti medesimi, che adattandosi alle misure nostre, facciano un effetto equivalente a quello che fanno nel loro essere primitivo... Ho avuto tre avvertenze, secondo me, importantissime. La prima, di far che l’autore medesimo supplisse a se stesso, servendomi delle maniere usate da esso in luoghi simili, ed alle volte trasportandole vicendevolmente da un luogo all’altro. La seconda, di aggiunger generalmente quei sentimenti ch’erano inchiusi nel sentimento dell’autore, o n’erano una conseguenza immediata: avvertendo che ciò non fosse in quei luoghi, ove l’autore gli aveva artificiosamente soppressi. La terza infine, di guardarmi scrupolosamente dall’ammettere idee o espressioni che non fossero esattamente conformi al modo di pensare, e d’esprimersi del mio originale» (Ossian, II, pp. 342-344).

35 Seguo, come ho già citato, l’edizione di Pisa: Poesie di Ossian antico poeta celtico, Tipografia della Società letteraria, Pisa 1801, tomi 4 – riportata integralmente nelle Opere (II-V). Alle edizioni posteriori a quella pisana, oltre quelle citate da Karl Weitnauer in appendice al suo Ossian in der italienischen Literatur (Zeitschrift für vergleichende Literaturgeschichte, «Neue Folge», XVI, Berlin 1906), da Paul Hazard (p. 363 di La révolution française et les lettres italiennes, Paris 1910) e da Gustavo Balsamo-Crivelli (Poesie di Ossian, Torino 1924, pp. XII, XIII), è da aggiungere quella di Venezia 1819.

36 Nel Saggio sulla filosofia del gusto, Pisa 1800, p. 306.

37 Omero, con cui nelle note Ossian è spessissimo paragonato, viene sempre trovato inferiore appunto perché sentito privo di quella sentimentalità che il Cesarotti accertava abbondantissima nel suo testo: «Poco è ad Ossian d’esser ammirabile: il suo massimo studio è d’esser toccante. Sono rari in Omero questi tratti preziosi di sentimento, o appena abbozzati» (I, p. 296); «In Omero si ascolta, in Ossian si sente» (I, p. 303). E di fronte al mondo classico il mondo ossianesco è presentato come piú umano, generoso, profondo: «L’amore dei Greci e dei Latini è un bisogno fisico e materiale: quello degli Italiani è spirituale; quel dei Francesi bel-esprit. L’amore di Ossian è di un genere che non rassomiglia a verun di questi. Egli ha per base il sentimento perciò è tenero e delicato...» (I, p. 299). Il falso primitivo ossianesco strappa espressioni di meraviglia per la sua finezza, per la educazione di sentimenti, per la sua fantasia non priva di buon senso: «Ossian il di cui mirabile non ripugna al buon senso» (I, p. 287). «Questa è una vera scuola di politezza e di virtú. Qual delicatezza di spirito non dovea esser quella di Ossian, per osservare in un secolo barbaro questi esatti e gentili riguardi, che sembrano il frutto della piú colta e raffinata società» (I, p. 302). Mentre gli eroi greci vengono descritti brutali e scorretti, quelli dell’Ossian appaiono al Cesarotti cavallereschi, ideali, perfetti («veggasi ora appresso Omero il rimprovero di Agamennone a Menelao, e i suoi crudeli sentimenti nel 6 dell’Iliade, v. 55 o la dura risposta d’Achille a Licaone nel 21 v. 99 o quell’altra atrocissima ad Ettore nel 23 v. 345, e poi si giudichi quale di questi due poeti debba interessarci maggiormente», III, p. 386), inquadrati in un’atmosfera familiare, idillica, convenzionale che ben si accorda con simili toni del Bertola, del Pindemonte, del mondo preromantico quale si configurò soprattutto in Italia e a cui questi nostri «rivoluzionari» tendevano ben piú che ad una decisa tempesta sentimentale, ad un focoso Sturm und Drang: «Questa conversazione è molto ben collocata e toccante. Ella spira virtú ed amor domestico. Oscar è un giovine amabile, pieno di tenerezza per il padre, e d’entusiasmo per l’avo, che arde di desiderio di rendersi degno d’entrambi. Fingal si compiace della sua generosa indole, e gli dà le lezioni del vero eroismo. Che bel soggetto per un quadro! Fingal in mezzo, appoggiato sullo scudo in atto d’ammaestrar il nipote: i cantori stan con le mani sospese sull’arpa per ascoltarlo. Gli altri eroi siedono per ordine con diversi atteggiamenti d’ammirazione, piú sedata nei guerrieri provetti, nei giovani piú vivace. Gaulo in disparte, pensoso, ed alquanto torbido. Oscar in piedi dirimpetto a Fingal, pendente dalla sua bocca, con la gioia e il trasporto dipinto sul volto: ed Ossian tra l’uno e l’altro con la lagrima all’occhio, e diviso tra l’ammirazione del padre, e la tenera compiacenza del figlio» (I, p. 311).

38 Ossian, ed. cit., III, pp. 382-383.

39 Ivi, III, p. 380.

40 Raramente nel cupo ossianesco si insinuano chiari temi di idillio che tendono sempre a sfarsi comunque in elegia. E indicano sempre un modo di intonazione poetica che lega preromanticismo e romanticismo neoclassico.

Ode cosí talvolta

vecchia dal verno dischiomata pianta

il sibilo gentil di primavera;

odelo, e si ravviva, e si fa bella

di giovinette spoglie, e scote al vento

le rinverdite sue tremule cime.

Dolce ronzio di montanina pecchia

errale intorno, e al rinnovo aspetto

dell’erma piaggia, il cacciator sorride

(Temora, III, vv. 494 ss.)

41 Ossian, Colanto e Cutona, vv. 52-64.

42 Già citati a p. 169, dal Dizionario di Ossian. Vicino al Dizionario c’è anche un Indice poetico di Ossian, «ossia catalogo classificato delle principali bellezze che si trovano nelle di lui poesie», caratteristico per la classificazione retorica ancora persistente nel Cesarotti.

43 Ossian, Indice poetico, IV, p. 127.

44 Cosí nel Cartone (vv. 589-590) integra Ossian con Pindaro: «tu pel ciel deserto / solo ti movi». «Il solo è di Ossian; il ciel deserto è di Pindaro. Ho unito insieme l’espressioni di questi due Geni, che dicono lo stesso, ed eran fatte l’una per l’altra».

45 Ossian, Fingal, I, vv. 465-468.

46 Ivi, Fingal, II, vv. 17-18.

47 Il Cesarotti nella pratica della traduzione, piú che disprezzare risolutamente le vecchie regole, cerca di mostrare che esse non vengono infrante essenzialmente nell’Ossian. Cosí a p. 289, I, Ossian, difende «le digressioni», gli «episodi secondari» che la sua educazione classicistica avvertiva, dicendo che «se alcuni dei canti episodici di Ossian non hanno una relazione diretta al soggetto particolar del poema, tutti però si riferiscono allo spirito, ed al fine generale di questo e degli altri poemi di Ossian; il quale è d’ispirar grandezza d’animo, e sensibilità di cuore col racconto d’avventure eroiche, e compassionevoli». Dove d’altronde, nelle ultime righe, si può osservare una piú ricca comprensione della novità preromantica, della diversa giustificazione costruttiva dell’Ossian che pure il Cesarotti sentiva il bisogno di spiegare, di mediare al lettore italiano.

48 Ossian, Comala, vv. 221-226.

49 Ivi, Carritura, vv. 140-148.

50 Ivi, La morte di Cucullino, vv. 2-3.

51 Ivi, Dartula, vv. 37-38.

52 Ivi, Callin di Cluta, vv. 4-7; il verso aggiunto è in corsivo nostro.

53 Ivi, Calloda, I, vv. 17-18.

54 Ivi, Calloda, II, vv. 182-184.

55 Ivi, Calloda, loc. cit.

56 Ivi, Calloda, III, vv. 139-140.

57 Ivi, Callin di Cluta, vv. 37-38.

58 Ivi, Fingal, I, vv. 268-269.

59 Ivi, I, p. 290. Si confronti del resto una pagina del Saggio sulle lingue (ed. cit., p. 99) in cui vuol mostrare che le immagini moderne piú accese sono assai piú moderate di certe metafore classiche che nessuno piú discute.

60 Ivi, Fingal, II, v. 140.

61 Ivi, Temora, I, vv. 413-414.

62 Ivi, Temora, VIII, v. 245.

63 Ivi, Latmo, vv. 487-489. Per rendersi conto del lavoro del Cesarotti (e insieme della suggestiva forza dei suoi versi) il lettore può confrontare la traduzione cesarottiana del testo inglese con la versione letterale di P.E. Pavolini (Ossian, Poemi scelti, Firenze 1924) dei Canti di Selma, e magari con quella in prosa poetica del Goethe nei Leiden des jungen Werther (ed. Insel, Leipzig, s.a., III, p. 93 ss.).

64 Quando mai uno scrittore italiano avrebbe immaginato un tale quadro di natura?

come d’autunno il sol qualora ei move

nella sua veste squallida di nebbia

a visitar di Lara i foschi rivi;

goccia d’infetto umor l’appassita erba,

e benché luminoso, il campo è mesto.

(Temora, II, vv. 361-365)

65 Per la natura del Nord, come fonte suggestiva di fresche immagini poetiche, l’Ossian rimase in Italia testo capitale, tanto che l’Alfieri poteva scrivere nella Vita (ep. III, cap. VIII, 30 aprile 1770): «La novità di quello spettacolo [in Svezia], e la greggia maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano, e benché non avessi mai letto l’Ossian, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché piú anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti».

66 Spesso il Cesarotti giungeva alle immagini piú nuove attraverso una sfumatura di pittoresco che si poteva scambiare con quello tradizionale.

67 Leopardi dichiarò nello Zibaldone (Tutte le opere, a cura di W. Binni, Firenze, Sansoni, 1969, vol. II, p. 222) che la poesia sentimentale era propria dell’ultimo secolo.

68 Ossian, Oscar e Dermino, v. 77.

69 Ivi, I Canti di Selma, vv. 206-213.

70 Ivi, Temora, II, vv. 506-509.

71 La stessa impostazione dei poemi ossianeschi è caratteristica in senso romantico: il ricordo vi prevale, la costruzione si pone come ripensamento nostalgico involgendo di un alone di rimpianto ogni azione drammatica piú immediata. Si vedano cosí gli inizi, che vennero poi piú facilmente imitati nella poesia «bardita», prima di ogni influenza di Klopstock.

Allor che al sonno

dansi i cantori, e nella sala appese

taccion l’arpe di Selma, allor sommessa

entro gli orecchi miei scende una voce

l’anima a risvegliar; la voce è questa

degli anni che passaro.

(Oinamora, vv. 4-9)

Non intesi una voce? O suono è questo

dei dí che piú non son? Spesso alla mente

la rimembranza dei passati tempi

vien come a sera il sol, languida e dolce. –

(Colanto e Cutona, vv. 1-4)

72 I romantici 1816 potevano trovare i piú utili precedenti proprio nei componimenti polimetrici come la Notte a cui, piú ancora di loro, attinsero, con risultati di grottesco, i poeti della decadenza romantica, come il Boito.

73 La pecchia della rupe errando mormora

un cotal canzoncin, che dolce fiedelo.

(La morte di Cucullino, vv. 149-150)

74 Ivi, Temora, I, vv. 642-643.

75 Ivi, Calto e Colama, vv. 108-116.

76 Novità e vittoria stilistica di cui il Cesarotti ebbe chiara coscienza: «Il nostro sciolto non si sostiene con altro che con la maestà dell’ondeggiamento periodico. Ora non v’è cosa piú direttamente opposta a questo genere di stile e di verso, quanto la maniera estremamente concisa, serrata e rapida, ch’è il costante carattere dello stile di Ossian. Pensino i conoscitori, se alcun lavorator di musaici ebbe mai a travagliar piú di me, per congegnar in verso sciolto un tutto armonioso di tanti minuzzoli, per far che i sentimenti ricevessero l’un dall’altro sostegno e risalto, per non istemprarli né storpiarli, per preparar loro mille giaciture varie e convenienti, e per commetterli insieme naturalmente e senza durezza. Io potea ben dir con ragione d’esser nel letto di Procuste. Certo è, che nella poesia italiana io non avevo alcun esempio preciso dello stile e del numero, che conveniasi alla traduzione d’un poeta cosí lontano dalle nostre maniere; e che mi convenne tentare una strada in gran parte nuova» (Ossian, ed. cit., II, p. 395). Fu l’Alfieri a dichiarare l’importanza dell’Ossian cesarottiano proprio per la sua offerta di un magnifico strumento di nuovo verso sciolto che egli vide soprattutto ai suoi fini di tragico. L’Alfieri ricorda nella Vita (Ep. IV, cap. I, 1775, in Opere, ed. naz., vol. I, p. 187) che quando si mise a studiare la struttura dei versi sciolti adatti alla sua concezione tragica, dopo un infruttuoso esame della Tebaide di Stazio nella versione del Bentivoglio, i suoi «amici censori» gli «fecero capitare alle mani l’Ossian del Cesarotti; e questi furono i versi sciolti che davvero mi piacquero, mi colpirono e mi invasarono. Questi mi parvero, con poca modificazione, un eccellente modello pel verso di dialogo». E piú tardi (Ep. IV, cap. VII, 1779; ed. cit., vol. I, p. 221) precisa: «L’arte del verso sciolto tragico non la ripeterò da altri che da Virgilio, dal Cesarotti e da me stesso». Quando poi, durante il soggiorno di Pisa nel 1785, inviò il terzo volume delle tragedie nella edizione senese al Cesarotti, questi gli rispose con uno strano consiglio: quello di studiare come modello le sue traduzioni da Voltaire. L’Alfieri notava in proposito, con molta esattezza, la scarsa capacità autocritica del Cesarotti che pure «aveva concepiti ed eseguiti con tanta maestria i sublimi versi dell’Ossian» (Ep. IV, cap. XV; ed. cit., vol. I, pp. 263-264). E il Foscolo (Osservazioni sul poema del Bardo in U. Foscolo, Opere, ed. nazionale, vol. VI, a c. di G. Gambarin, Firenze 1972, p. 473) faceva anche lui del Cesarotti uno dei maestri del verso sciolto. E nel Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia dice: «In verità i suoi versi son melodiosi, dolci, dotati di colore e di ardente spirito del tutto nuovi, perché, usando dei materiali antichi, ha creato una poesia che pare scritta in un metro e in un linguaggio del tutto diversi da quanto si trovava in precedenti modelli... la traduzione dell’Ossian sarà sempre considerata prova del genio del Cesarotti e della flessibilità che la lingua italiana possiede» (U. Foscolo, ed. cit., vol. XI, parte II, a c. di C. Foligno, Firenze 1958, p. 495).

77 Ossian, Temora, I, vv. 386-389.

78 Molti potrebbero essere gli esempi di immagini o cadenze, o atteggiamenti lirici che i nostri grandi romantici ripresero dall’Ossian, che risuonava ai loro orecchi come mondo poetico esuberante di suggerimenti; basti pensare per il Foscolo a questo verso: «né onor di pianto, né di canto avrai» (Temora, II, v. 241), e per il Leopardi: «O Selma o Selma / veggo le torri tue, veggo le querce / dell’ombrose tue mura» (La guerra di Inistona, vv. 17-19) e piú le varie interrogazioni da noi citate. Ma in uno studio sulla presenza dell’Ossian cesarottiano nella formazione della poesia leopardiana dovrà considerarsi anche l’importanza della traduzione di Michele Leoni dei Nuovi canti di Ossian (Firenze 1813), in cui il tono cesarottiano ritorna con una patina piú neoclassica. Ha rilevato la presenza della versione del Leoni alla memoria poetica del Leopardi il Flora nel suo commento dei Canti, Milano 1938.

79 Ossian, Temora, I, vv. 137-138.

80 Ivi, Canti di Selma, vv. 13-18.

81 Ivi, Calto e Colama, vv. 115-116.

82 Ivi, Temora, III, vv. 247-248.

83 Ivi, Dartula,vv. 11-22.

84 Ivi, Temora, I, vv. 356-360.

85 Ivi, Cartone, vv. 583-fine. Brano che il Cesarotti chiama esempio di «sublimissimo», per la superiore appassionatezza nel porre la domanda dell’angoscia umana in una atmosfera di solennità soprannaturale e terribile. Il «sublime» cesarottiano risulta anche da un atteggiamento tra patetico e grandioso che si estrinseca in versi allusivi e spaziosi, tra pittorici e sentimentali, del cui effetto sonante e musicale insieme il Cesarotti ebbe coscienza assai sottile nel suo rielaborare e volgere il testo inglese:

Stava dall’alto risguardando il mare

(Temora, VII, v. 469)

«Ossian presenta due specie di poesia, una in parole per gli orecchi, e l’altra in cenni per l’anima. Io studio d’esser l’interprete dell’una e dell’altra».

86 Ivi, La battaglia di Lora, vv. 71-73.

87 Se in tutta Europa Ossian rimase ancora vivissimo intorno al 1830 (v. Zibaldone del Leopardi, in Tutte le opere cit., vol. II, p. 1219, che cita, in proposito all’entusiasmo ancor desto per i canti ossianeschi, il Villemain), in Italia tale amore si prolungò fino agli Scapigliati. Il Leopardi che lo conosceva già prima del 1820 (ivi, II, p. 89) ne parla spesso come di poesie «sublimi» e melanconiche che credeva originali, primitive e portava come prova appunto della poesia dei popoli antichi («Tutti i caratteri principali dello spirito antico, che si trovano in Omero e negli altri greci e latini, si trovano anche in Ossian...»; ivi, II, p. 93). E derideva cosí i romantici inglesi che avrebbero lasciato la poesia malinconica tipo Ossian, indigena, per la sensuale poesia orientale esotica (ivi, II, p. 286). Ed è certo che la sua fede nella primitività dell’Ossian lo aiutò a sentirne il fascino senza quell’atteggiamento polemico con cui egli si pose di fronte ai romantici stranieri.